venerdì 21 gennaio 2011

VIII
Per chi suona la ghironda

Monna Lucrezia è una sognatrice. Sogna fin da quando era bambina e lo fa per sfuggire a una realtà che le appare priva di ogni diletto.
Vanni, con le sue invenzioni, la fa sentire straordinariamente viva. Ma, soprattutto, la incuriosisce con il racconto fantastico di quello che ha visto. O meglio, che ha immaginato di vedere. Lei ha compreso subito che le sue avventure sono in gran parte il frutto della sua fertile fantasia ma le piace quel suo modo spontaneo e accattivante di raccontare le storie. Storie alle quali lei non crede affatto ma che le piacciono proprio perché sono impossibili. Anche quando lui le mormora parole d’amore, Lucrezia sa benissimo che non sono farina del suo sacco ma ride di un riso argentino che rompe il silenzio delle sale deserte della Smilea.
“Lussuria è causa della generazione. Gola è mantenimento della vita .” le sussurra il pittore, mentre la bacia sul collo nel calore soffocante del fienile o all’ombra del fico, spacciando per suoi quelli che sono invece pensieri del suo amico Leonardo.
Vanni si è offerto di farle un ritratto e il Panciatichi, impietosito dai suoi abiti sdruciti e dalla sua magrezza, ha finito per commissionargli il quadro. In verità, lo hanno convinto soprattutto le preghiere di Lucrezia, che, poverina, si annoia a morte relegata in quella campagna che non conosce altra musica che il canto dei grilli, né altra danza al di fuori di quella dei fuochi che ardono in mezzo alle stoppie.
Messer Simone sa di essere anziano e troppo preso dai suoi traffici per soddisfare quella giovane moglie inquieta e tanto diversa dalle donne della sua famiglia. Solo ora si rende conto che ha sbagliato a sposarla. Ma è tardi. Inoltre non vuole dare soddisfazione ai suoi parenti che tanto hanno osteggiato quest’unione con una donna di famiglia nemica.
Così, quando lei, arrossendo come una bimba scoperta a rubare le ciliegie, gli racconta quello che Vanni le mormora mentre le fa il ritratto nella penombra della torre, messer Simone scuote la testa e si lascia prendere dalla malinconia. Allora, per farla sorridere, le promette che prima della fine dell’estate inviterà ospiti illustri e musicanti. E farà una grande festa di cui lei sarà la regina.
Vanni, dal canto suo, non si rende conto che Messer Simone non si fa ingannare dalle sue lusinghe e che non è così stolto da credere che un giorno lui lo renderà famoso insieme alla sua sposa, rappresentandolo in un ritratto che farà concorrenza a quello che un pittore fiammingo ha fatto molti anni prima al mercante Arnolfini e a sua moglie.
Al Panciatichi non sfuggono certo gli sguardi complici che il giovane rivolge a sua moglie mentre suona per lei una vecchia ghironda che ha trovato in un baule. E non gli sfugge nemmeno la frenesia che agita le gambe di Lucrezia: l’allegria che si sprigiona dallo strumento le fa venir voglia di danzare a piedi nudi. Lo farebbe volentieri, se non fosse una tentazione del diavolo.
Simone comprende e la contempla in silenzio. Pur temendo la vitalità della moglie, sa che la sua saggezza senile deve allontanargli dal cuore ogni ombra di gelosia. Quello che prova è semmai un sentimento di compassione, unito al rimpianto per la sua giovinezza ormai fuggita. Per questo è così magnanimo da lasciare che Lucrezia si inebri del calore del meriggio e che il rosso dei suoi riccioli si confonda nei campi con il rosso dei papaveri.

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