sabato 17 maggio 2008

I CALZARI DELL’ABATE GIOACCHINO

La ricerca delle radici non è un viaggio turistico che qualsiasi tour operator può organizzarti in poco tempo, per una modica cifra, tutto compreso nel “pacchetto vacanze”.
Per esperienza personale, posso affermare che si tratta di un viaggio difficile. Per certi aspetti anche sconvolgente.
Non la pensavo così una mattina di fine luglio, quando, ormai stanco delle folte schiere di parenti e dei loro interminabili pranzi, decisi che era giunto il momento di ripercorrere le strade sulle quali mio nonno, e i suoi avi prima di lui, avevano camminato, appesantiti dal loro fardello di fatica e di rassegnazione.
Ero infastidito dal clima troppo folkloristico delle feste paesane ma anche dagli sguardi indifferenti dei passanti che non mi conoscevano più.
Inoltre l’odore dei vicoli, stretti fra i muri di pietra grigia, non era più quello delle lunghe giornate oziose che trascorrevo da bambino, quando mi rifugiavo sul balcone di casa mia e aguzzavo lo sguardo in fondo all’orizzonte, verso il mare, nella speranza di intravedere il bagliore lontano del faro di Punta Stilo.
Ora, che ho percorso decine di autostrade e sono salito su tanti treni, non è facile ripensare alle stagioni della mia infanzia, quando il mondo mi appariva circoscritto fra la piazza e il ciglio della strada e quando, alle prime ombre della sera, una sensazione di profonda mestizia mi entrava nell’anima. In quei lunghi pomeriggi pensavo con rimpianto a quello che mi aspettava fuori dal quel nido che mi teneva prigioniero.
Quella mattina d’estate, pur consapevole di non poter più riallacciare molti dei legami che avevo reciso, salii in macchina e mi diressi verso il paese di mio nonno.
Per strada, con la musica della radio in sottofondo, mi sentivo quasi euforico.










Il pensiero di scoprire un indizio che mi riconciliasse con quel mondo, che non sentivo più mio, mi inebriava e mi incuriosiva al tempo stesso.



Qualche giorno prima, mentre sorseggiavo un caffè in un bar del paese, avevo incontrato un compagno di scuola, tale Mico, che non vedevo da almeno trent’anni.
Per dire la verità, non lo avevo riconosciuto, un po’ perché era invecchiato,un po’ perché la mia mente aveva consapevolmente rimosso molte facce della mia infanzia.
Fra un “ti ricordi e l’altro”, il discorso era scivolato sulla mia famiglia e, a un certo punto, Mico mi aveva chiesto: “Ma tu ci sei mai stato a Carlopoli? Lo sai che là ci sono diverse persone che portano il tuo cognome?”
Ammisi di non essermi mai interessato agli abitanti di Carlopoli. Anzi, a pensarci bene, non ci ero nemmeno mai stato.
“Perché non ti fai una passeggiata nella Sila piccola e non vai a dare un’occhiata al paese di tuo nonno? C’è l’aria buona e c’è anche un’abbazia antica che sta tutte le guide turistiche. O meglio, ci sono le rovine. Chiedi di Corazzo... Guarda, se vuoi, ti metto in contatto con un mio amico che lavora all’ INAIL e che conosce ogni pietra della zona. Ha scritto anche dei libri di leggende popolari. E’ una persona squisita, un vero signore. Ecco, guarda, scriviti il suo numero di cellulare e chiamalo a nome mio. Gli farà piacere scambiare quattro chiacchiere…”



Vitaliano Talarico era mio coetaneo e quando ci incontrammo, fuori dall’edificio dell’INAIL di Catanzaro, faceva un caldo infernale.
Aveva la camicia intrisa di sudore e mi strinse la mano, mentre con l’altra si sventolava con una copia spiegazzata della “Gazzetta del Sud”.
Poco dopo, davanti a una granita con brioche, ci mettemmo a



nostro agio e incominciammo a parlare.
Un grosso ventilatore sul soffitto emanava una gradevole sensazione di refrigerio.
Vitaliano Talarico mi dette subito l’impressione di una persona riservata ma socievole . Mi raccontò che aveva studiato Filosofia a Roma, che si era laureato abbastanza presto e che aveva fatto una scelta coraggiosa: era ritornato al suo paese.
Mentre parlavo, lo osservavo senza farmi troppo notare. La sua non era una cortesia formale e aveva modi eleganti . Direi che faceva venire in mente uno di quei gentiluomini dall’aspetto un po’ borbonico, che un tempo passavano le giornate, fumando con indolenza, seduti ai tavoli dei caffè del corso …
Ci rendemmo subito conto, a pelle, di aver vissuto molte esperienze giovanili comuni. Parlavamo lo stesso linguaggio, ma non so perché non ci venne fatto di darci del “tu”.
“Dunque lei ha studiato a Firenze...” osservò Talarico, fissando le palme della piazza, che si intravedevano attraverso i vetri sporchi del bar.
“ Diversi anni fa, conobbi una ragazza di Firenze. Ci venivo spesso. Quante passeggiate sui Lungarni o lungo il viale che porta al Forte Belvedere…”, aggiunse subito dopo, con un lieve sospiro che sapeva di rimpianto.
“ Lei si è pentito di … essere tornato?” gli chiesi a bruciapelo. Ma in quello stesso istante mi pentii della domanda indiscreta e forse un po’ troppo confidenziale.
Il mio interlocutore non ci fece caso, o perlomeno non sembrò offeso. Mi guardò con i suoi occhi scuri e si lisciò i baffetti brizzolati: “Lei non ci crederà, ci sono dei momenti in cui rimpiango la vita di allora, i viaggi, gli incontri, l’impegno politico, le occasioni culturali … ma, in altri, sento come un bisogno irrefrenabile di rimanere qui. Non so se mi capisce, voglio dire che mi piace camminare lungo il corso affollato, fermarmi a comprare i mustazzoli alla bancarelle… Devo ammettere anche che mi piace troppo inveire contro il traffico anarchico e respirare quest’aria levantina che mi invita a non affannarmi troppo, perché tanto le stagioni continuano a scorrere sempre uguali, sia che io




le preceda, sia che le insegua …”
“Già”, concordai con lui “ qui i ritmi sembrano tanto più lenti che a Nord. Ogni volta che torno mi stupisco della mia inutile frenesia, della mia efficienza esagerata …”
“Guardi bene, il mio non vuol essere il solito fatalismo rassegnato di certi intellettuali meridionali, quanto piuttosto un recupero di quella saggezza antica che i filosofi della Magna Grecia dispensavano ogni giorno nelle strade e nelle piazze …”
E qui Vitaliano sorrise di nuovo, come se si volesse prendere garbatamente in giro, o come se temesse che le sue parole, inconsapevolmente eloquenti, fossero prese troppo sul serio.
“Ma non credo che le interessino le mie elucubrazioni di oscuro cantore delle tradizioni calabresi. Mi scusi se l’ho annoiata con i miei discorsi. Lei voleva sapere qualche notizia su Carlopoli…”
“ Non mi annoio affatto. Anzi, le assicuro che i suoi discorsi mi interessano molto … Eccome se mi interessano!” , lo rassicurai. “ Più che altro vorrei andare a fare un giro verso Castagna, che è vicina a Carlopoli. Mio nonno era di là … o meglio c’era nato, perché a nove anni , aveva preso un bastimento ed era arrivato in America , proprio come un pacco postale, che i fratelli maggiori avrebbero dovuto ritirare, una volta arrivato. Invece, se lo dimenticarono e lui, dopo il periodo di quarantena, pensò bene di arrangiarsi da solo e di sopravvivere portando l’acqua agli operai che costruivano la ferrovia. Così passò, senza apparenti traumi, dalle fiumare della Sila piccola alle praterie del Far West. Quando tornò al suo paese, con il revolver alla cintura, era un uomo fatto. Uno di quelli che non deve mai chiedere niente a nessuno.”
“E a lei è venuta la curiosità di riscoprire le sue radici.”, osservò Vitaliano accendendosi una sigaretta, “E’ naturale che uno, arrivato a una certa età, abbia voglia di ricordare il proprio passato …”
“Vuol dire che si ritorna indietro perché si invecchia?”
“Può darsi …” azzardò Talarico, avviandosi verso il banco per pagare.
Detti un tacito saluto al ventilatore che continuava a girare sul soffitto e uscimmo insieme dal bar, tuffandoci di nuovo nella canicola, che odorava di rosmarino e di asfalto.
Dopo aver memorizzato le istruzioni del viaggio, che Talarico mi


dette con estrema precisione, lo ringraziai e risalii in macchina, inveendo contro un motocarro che mi ostruiva il passaggio. E anche contro il solito vigile, che, invece di dirigere il traffico, se ne stava comodamente a chiacchierare con un fruttivendolo, ignaro e indifferente di fronte al caos di quel che restava della Magna Grecia all’ora di punta.



Uscendo da Catanzaro, mentre percorrevo il viadotto Bisantis, mi venivano in mente i resoconti di alcuni viaggiatori stranieri del ‘700, che descrivevano la zona come un luogo impervio e selvaggio.
Il ponte, il più alto d’Europa ad una sola arcata, simile a un lucido ottovolante sulla Fiumarella , emanava bagliori accecanti nel riverbero del mattino.
Mi misi a fischiettare , aprii il finestrino e presi la strada che doveva portarmi fino a Castagna.
Arrivai in paese verso le undici. Un paio di vecchi, seduti fuori da un bar, mi guardarono curiosi e insospettiti. Avevo caldo ed entrai a bere una limonata. Su una mensola di legno stavano allineate delle cartoline in bianco e nero. Ne presi in mano una e lessi sul retro i versi di una certa Palmira Fazio Scalise : “Da Citeaux trasse, glorioso, il nome di Cistercense, poi che l’abbazia primiera sorse fra le solitudini nude e silenti…” L’aveva detto Mico che a Castagna c’erano tanti che si chiamavano come me, ma non avrei mai creduto di avere antenate così ispirate ed auliche. In compenso, io non avevo ereditato nessuno spirito poetico.
Anche la ragazza che stava al banco sembrò stupita di vedere un forestiero e, quando le chiesi quanto fosse distante l’abbazia, si limitò a rispondermi in maniera abbastanza vaga, facendomi intendere che era poco lontana.
Così pensai di fare due passi e di raggiungerla a piedi. Fu una






cattiva idea perché, per arrivare alle rovine dell’abbazia, dovetti farmi un paio di chilometri sotto il sole, lungo una strada polverosa e piena di mosche.
Ma ne valeva la pena. Quando intravidi le mura di Corazzo, ricoperte da un folto tappeto di rampicanti, che si stagliavano contro il cielo, mi sembrò di trovarmi di fronte a uno scorcio di presepe. Uno strano e silenzioso presepe estivo, immerso nel verde della valle del fiume Corace.
Stanco e sudato, mi sedetti su un masso che sporgeva dal terreno e seguii con lo sguardo una lucertola che correva ad infrattarsi in una crepa del muro.
Il silenzio era totale, interrotto soltanto dal frinire delle cicale.
Mi alzai, un po’ rinfrancato dopo lo sforzo della camminata, e incominciai a gironzolare fra le rovine, passando attraverso le fessure più larghe e osservando i torrioni abbandonati.
Se ci ripenso, a distanza di tempo, quel paesaggio irreale mi trasmette ancora un gran senso di inquietudine.
Ad un tratto mi venne un’ inspiegabile voglia di fuggire ma, mentre ritornavo sui miei passi, avvertiii un leggero fruscio alle mie spalle, come se un animale fosse passato fra le piante.
Mi girai di scatto e lo vidi con la coda dell’occhio: era un monaco anziano, che si avvicinava con passo quasi scattante, abbastanza insolito per la sua età avanzata. Sembrava comparso dal nulla. Si avvicinò a me, mi squadrò con l’occhietto furbo e, infilata una mano nel saio sdrucito, ne tirò fuori un pezzo di pane.
La sorpresa mi impedì di chiedermi che cosa ci facesse un frate fra quelle rovine. Lui sembrò quasi leggermi nel pensiero. Con un gesto rapido mi mise il pane sotto il naso e mi sussurrò con un filo di voce: “ Fratello, vuoi mangiare un po’ di pane dell’abbazia? Non ne abbiamo molto ma non ne neghiamo a nessuno, né ai pecorai che scendono da Scigliano, né ai porcari che vengono dalle valli del Savuto. Il Corace dà da bere a tutti e noi pensiamo al mangiare …”
“No, grazie, ho già fatto colazione.”, gli risposi un po’ impacciato.
Il frate sembrò deluso ma aveva voglia di parlare e osservò: “ Tu



sei straniero, fratello. Non ti ho mai visto da queste parti. Un tempo i visitatori erano tanti ma da quando non c’è più l’abate Gioacchino, si vedono sempre meno cristiani…”
Gli occhi del vecchio sembravano animati da un fervore di altri tempi. Mi prese la mano e, sorridendo estatico, scoprì le gengive sdentate.
“ Lo sai che quando c’era lui, l’abbazia era una delle più ricche? Lui amava questo posto … Figurati che andò anche a Palermo da re Guglielmo per difendere i diritti del monastero e per farlo accogliere nell’ordine cistercense. Ma tutti quei baroni non volevano che S.Maria di Corazzo possedesse tante terre e lo hanno sempre fatto tribolare con la loro avidità. E pensare che lui non si voleva occupare dei beni materiali . Quando era con noi, Gioacchino pensava solo al mistero della Trinità e profetizzava l’avvento dell’età dello Spirito... ”
Il vecchio si mise in bocca il pane che avevo rifiutato e incominciò a masticarlo con i pochi denti che aveva in bocca. Si capiva che faceva una gran fatica.
Possibile che fra tanti abitanti della zona fossi incappato proprio nel pazzerello del villaggio? Il suo sguardo da esaltato e gli strani discorsi che faceva dimostravano chiaramente che il poveretto non ci stava più tanto con la testa.
Comunque, era un tipo socievole e, a modo suo, anche simpatico.
Tanto per non sembrare scortese, decisi di assecondarlo: “ Scusate, ma dov’è ora il vostro abate?”
“Ah, già, tu sei straniero. Altrimenti sapresti che l’abate Gioacchino se n’ né andato via da qui. E’ partito insieme a Raniero. Pare che si siano rifugiati in Sila, fra il Neto e l’Arvo, in un posto sperduto, in mezzo ai lupi …” , soggiunse con un gran sospiro.
“ Si vede che aveva altro da fare .”, osservai tanto per dire qualcosa.
Il vecchio parve offeso dalle mie parole e mi riprese con un’espressione severa, quasi di rimprovero: “ Come sarebbe a dire? Noi gli volevamo bene e lui era contento di dividere il pane e l’acqua con noi. Nessuno lo disturbava nel suo lavoro. Se ne stava sempre a studiare





le Scritture e a dettare le sue opere a Luca …”
“ E chi sarebbe questo Luca?”
Il frate mi guardò come si guarda un marziano: “ Ma come, non hai mai sentito parlare di Luca Campano? E’ lui che gli faceva da amanuense. E’ a lui che l’abate ha dettato il libro dell’Apocalisse.”
A quel punto mi sembrò che il colloquio con quel frate bizzarro fosse durato anche troppo . Feci il gesto di salutarlo. Ma lui non aveva ancora voglia di lasciarmi andare.
“ Io lo so perché è dovuto fuggire … Però, prima di andarsene mi ha voluto lasciare un ricordo . Guarda, figliolo, che cosa mi ha regalato l’abate …” E il vecchio, tutto ispirato, si chinò per toccarsi ambedue i calzari consunti e ricoperti di polvere.
Mentre lo guardavo perplesso, si mise a ridacchiare. Poi, tornato improvvisamente serio, mi apostrofò con il dito alzato, come per ammonirmi: “ Tu non ci credi che Gioacchino mi abbia lasciato i suoi calzari, eh? Lui mi disse che non ne aveva più bisogno e che sarebbe ripartito a piedi scalzi. Tu, invece, dovresti smetterla di guardarmi con codesta espressione da miscredente …” Non feci in tempo a rispondergli che il vecchio scomparve con un balzo fra le rovine, con la stessa rapidità con cui era apparso poco prima.
L’idea di tornarmene a piedi fino al paese mi faceva venire i crampi allo stomaco.
Forse avevo anche fame. Ma non c’era altro da fare che rimettersi in marcia.
Mentre camminavo sul ciglio della strada, sotto il sole di mezzogiorno, mi detti mentalmente dello stupido. Ero partito per visitare il paese di mio nonno ed ero finito in mezzo a un mucchio di sassi roventi a ragionare con un vecchio pazzo vestito da frate.
Almeno avessi incontrato un’anima viva per chiedergli dove potevo andare a mangiare!
Mi misi così ad inveire ad voce alta, senza che nessuno mi potesse dare una risposta: “ Perché in questo maledetto posto non conoscono le mezze misure? Gli automobilisti sono sempre dove non devono essere: in fila agli incroci, in divieto di sosta, controsenso … Mai che ce ne sia uno dove deve essere!”
Sembrò che avessi espresso il desiderio al genio della lampada di Aladino, perché proprio in quel momento, dalla curva alle mie spalle, sbucò un pesante fuoristrada, che per poco non mi prese in pieno. E, come da copione, appena mi ebbe superato, l’auto si fermò con un assordante stridio di gomme.
“ Volete un passaggio?” La ragazza affacciata al finestrino sembrava intenzionata a rivestire i panni della Donna della Provvidenza. Non mi lasciò nemmeno il tempo di rispondere. In un attimo salii sul sedile davanti, proprio accanto a lei, che, dopo avermi squadrato per benino, giunse ad un’originale conclusione: “Voi non siete di qui, vero?”
La mia salvatrice doveva avere circa venticinque anni. L’età di mia figlia.
Mi sentii un po’ imbarazzato e cercai di chiarire la mia posizione. Se mi avesse visto mia moglie, forse avrebbe avuto qualcosa da ridire, se non altro perché la guidatrice del fuoristrada era una gran bella ragazza. Una di quelle che non puoi nemmeno definire sfacciata, perché i suoi modi confidenziali risultano talmente spontanei da sembrare innocenti.“ Mi dispiace disturbarla …”incominciai timidamente.
“Ma quale disturbo?! Volete morire per un’insolazione? Fra due minuti siamo in paese. E’ lì che avete la macchina, vero?”
“ E lei come lo sa?”
“ Vi ho visto quando siete arrivato, solo, solo e avete parcheggiato nella piazza in divieto di sosta. ”
“ Lei abita a Castagna?”
“Io? Per carità! Ci vengo in vacanze, da mia nonna. Io sono di S.Giovanni , il paese di Gioacchino da Fiore. Lo conoscete?”
Di nuovo, con questo Gioacchino! Sì, mi ricordavo vagamente di questo personaggio. Ne parlava anche Dante nel Paradiso. E una volta, da bambino , mio padre mi aveva portato a San Giovanni in Fiore, a vedere la tomba di questo frate, in una cripta buia . Quella volta, per la verità, mi ero divertito di più a viaggiare sul trenino delle Calabro Lucane che a visitare la chiesa.
“Ecco, siamo arrivati”. La ragazza sgommò di nuovo e si fermò






davanti all’ultima casa della piazza. Quando scese dal fuoristrada, non potei fare a meno di notare che aveva una gonna molto corta e un paio di gambe decisamente apprezzabili.
“ Se volete favorire, mia nonna ha sicuramente preparato il pranzo e vi assicuro che cucina sempre per un reggimento.”
Esitai accanto alla portiera aperta. Mi sembrava poco educato accettare quell’invito, senza nemmeno essermi presentato. Inoltre quella ragazza era proprio imprudente . Non solo osava dare passaggi agli estranei per le strade deserte ma aveva anche l’impudenza di invitarli a pranzo!
Fu questione di un attimo. La porta della casa si aprì e una signora anziana, minuta e gentile, mi sorrise come se fossi stato uno di famiglia. E, in un certo senso lo ero. Non feci in tempo a presentarmi che, quella incominciò a farmi festa e a sciorinarmi tutto l’albero genealogico della famiglia fino alla sesta generazione: “ Ma allora tu sei il nipote di Concetta, la figlia di Felicina, che aveva sposato in seconde nozze mio zio Ciccio. Ma guarda un po’ che sorpresa!”
La parentela mi risultò alquanto complessa ma ormai i giochi erano fatti. Mi ritrovai poco dopo seduto alla tavola della cugina Giannuzzella, che poi era la nonna di Rosa, la ragazza che mi aveva salvato da una morte sicura per inedia e colpo di sole.
E’ difficile ripartire dopo aver ingurgitato una porzione doppia di scialatielli con la salsa, un paio di etti di ‘nduja con le olive piccanti, mezza forma di pecorino con le fave, due butirri e qualche bicchiere di Cirò. Di quello fatto in casa dai parenti, che prima ti rende allegro con il suo retrogusto vagamente acetato e poi ti stordisce, facendoti piombare in una sorta di beata sonnolenza.
Giannuzzella, con la sua vocina suadente e garbata, mi raccontò antiche storie di zii briganti e di cugini che avevano fatto fortuna in America.
Alla fine del pranzo, quando ormai incominciavo a dare chiari segni di stanchezza, mi raccomandò : “ Non ti dimenticare di passare da Taverna a vedere i dipinti di Mattia Preti” . Promisi che non avrei mancato in nessun modo di fermarmi anche a Taverna. Ma fra me e me, desideravo soltanto tornarmene il prima possibile a Gagliano e farmi una bella dormita, che mi liberasse dalla fatica di quella inconcludente




ricerca.
Ma la giornata non era ancora finita. Anzi, il meglio doveva ancora venire. Innanzi tutto, sbagliai strada e, invece di tornarmene da dove ero venuto, presi la direzione opposta e mi ritrovai in mezzo alle casette di legno del Villaggio Mancuso.
“Pazienza …” mi dissi, abbandonandomi al torpore della digestione, “ Vuol dire che prenderò un po’ di fresco!” E mi immersi, ormai rassegnato, in mezzo a quelle strane baite dall’aspetto svizzero, dalle quali sembrava che dovessero uscire da un momento all’altro tante piccole fate in costume tirolese. Già, la Sila sembrava proprio un altro mondo. Un mondo lontano dalle spiagge sassose dello Ionio ed estraneo ai tuguri dall’aspetto mediorientale di certi paesi della costa...
La strada era piena di curve, che abbordavo con una certa noncuranza, anche perché, a quell’ora del primo pomeriggio, a giro non c’era proprio nessuno.
Ad un tratto, qualcosa mi riscosse dalla mia placida incoscienza e il fragore del masso che si staccava dal costone sovrastante la strada mi colse di sorpresa. Non ricordo più niente di quell’istante. Nella mia memoria affiora soltanto l’immagine di un grande faggio, che mi viene incontro e che sfiora il tetto dell’auto . E la brusca sterzata per evitarlo , il precipizio sotto di me e le mille immagini che mi si affollano sfumate nella mente, più sorpresa che terrorizzata. E, infine, il buio dell’incoscienza.



Mi risvegliai, non so quando, in un letto dell’ospedale “Pugliese” di Catanzaro.
Mia cugina Maria, che, proprio quel giorno era di turno al pronto soccorso, mi augurò il buongiorno con una battutina affettuosa: “ E







bravo Pepè! Una volta tanto che ci vieni a trovare, dobbiamo venire a raccoglierti in ambulanza su una strada della Sila … Ma che diavolo ci facevi da quelle parti?”
“ Oh, niente, cercavo le radici …“ farfugliai accarezzandomi la testa fasciata, che mi faceva un gran male .
“ Ma di quali radici vai parlando? Lo sai che per poco non finivi arrostito nel precipizio? Hai avuto una bella fortuna! Vorrei solo sapere chi è stato a portarti fuori dall’auto, un istante prima che prendesse fuoco.”
“ Vuoi dire che …”
“ Voglio dire che l’auto è rimasta in bilico sopra un grosso faggio e qualcuno ne ha approfittato per tirarti fuori. Appena in tempo, prima che prendesse fuoco e precipitasse in fondo al burrone. I carabinieri dicono che ha rischiato grosso. Ancora un attimo … e ci avrebbe rimesso la pelle anche lui. Insieme a te.” E qui mia cugina fece un gesto eloquente, che mi fece venire i brividi.
Cominciavo a comprendere ma continuavo a non ricordare nulla.
Chi mi aveva salvato la vita? E, soprattutto, perché questo eroe sconosciuto era scomparso, senza nemmeno aspettare che lo ringraziassi?



Non potevo ripartire senza essere tornato su quella strada. Una frenesia sconosciuta mi spingeva di nuovo là, in mezzo ai boschi di abeti, di faggi e di pini.
Mio cugino Saverio si offrì di accompagnarmi, il giorno prima che partissi in aereo da Lametia. Ci avviammo con il suo furgone nel tardo pomeriggio. La testa non mi faceva più male ma zoppicavo ancora a causa di una contusione al ginocchio e i muscoli delle gambe erano ancora un po’ rattrappiti e doloranti. Mi era andata bene. Mia zia Anna mi aveva portato in pellegrinaggio alla Madonna di Porto per ringraziarla per lo scampato pericolo. Per poco non cadevo rovinosamente sugli scalini del santuario. Evidentemente non era ancora scoccata la mia ora!



Il furgone di Saverio si fermò proprio nel punto dove la frana mi aveva investito e, con il cuore che mi saltava in gola, scesi con fatica, barcollando fino all’orlo del precipizio.
La carcassa della mia povera auto era stata rimossa ma si vedevano chiaramente le tracce dell’incendio. Mentre fissavo nel vuoto l’erba e i tronchi bruciati, un raggio di sole, filtrato attraverso le frasche di un cerro, mi ferì la vista. Abbassai gli occhi.
Fu allora che lo sguardo mi cadde su due macchie scure, che stavano ordinatamente allineate per terra, proprio sul ciglio della strada.
Non ci volle molto a capire di chi fossero quei due vecchi calzari ricoperti di polvere. Li avevo riconosciuti subito. Erano i calzari dell’abate Gioacchino!
Sulla via del ritorno, finsi di addormentarmi, per non dover spiegare niente a Saverio. A metà strada mi addormentai davvero.
Giungemmo al paese verso sera e, mentre i monti si popolavano di ombre mi giunsero all’orecchio i versi di Achille Curcio, che mio padre mi recitava da bambino : “ Quandu cada la sira e ad una ad una/ si appiccianu li luci de Gagghianu,/guardandu lu paisa a lu Timpuna/ nu prisepiu mi para de luntanu. Sutta li casi vecchi e affumicati/ la trempa scinda versu la vaddhata/e nt’o scuru si stagghianu li strati, !para la terra tutta addormentata.”