martedì 24 novembre 2009

lunedì 6 ottobre 2008
INCONTRI RAVVICINATI NELLA BRUGHIERA
All’amico Enzo e a tutti i compagni dell’avventura bretone.

Enzo Lancellotti scese dal predellino del camper affondando le scarpe nella terra umida del prato. Si stiracchiò pigramente, osservando il cielo di Bretagna che, nonostante fossero già passate le dieci, non sembrava ancora disposto a cedere il passo alle tenebre notturne.
“Che pace ! – pensò - Qui nessuno ti rompe le scatole.”
Mentre addentava, goloso, un biscotto fragrante e intriso di burro, gli venne il mente il rumore assordante delle moto che, a quell’ora della sera, percorrevano a tutto gas i viali di Montecatini. Gli sembrò anche di distinguere, con orrore, il frastuono assodante delle slot machine del bar sotto casa e le urla sguaiate degli avventori.
Ora che finalmente stava per andare in pensione, la prospettiva di viaggiare più spesso lo riempiva di sollievo e lo rendeva entusiasta come un ragazzino desideroso di avventura.
Sì, presto avrebbe razziato tutti i depliant più invitanti delle agenzie di viaggio e, mentre sua moglie si stressava in ufficio, lui avrebbe progettato escursioni in cima al mondo…
Quel camper da otto posti, noleggiato per le vacanze in Bretagna, gli piaceva proprio. Eccome se gli piaceva! Lo trovava estremamente comodo, soprattutto quando guidavano gli altri.
Andare in vacanze con i soliti amici gli garantiva un trattamento da satrapo. Ernesto, che per le sue indiscutibili doti organizzative e di comando era soprannominato “il Generale”, guidava volentieri, sia lungo le autostrade deserte che per i tornanti insidiosi, mentre Raffaele scrutava le mappe con la perizia di un Marco Polo, il cui versatile ingegno era stato ingiustamente sacrificato alle officine Ansaldo- Breda. Emilia aveva il compito di studiare le notizie storiche e artistiche della guida Michelin e di escogitare itinerari ardui e impossibili. Laura, invece, fingeva di dormire ma, in realtà, osservava i compagni, meditando trame astruse per i suoi racconti. Monica , da parte sua, cantava la “ninna nanna” al suo cucciolo di boxer, Maria sbadigliava guardando fuori dal finestrino e Giuseppe fotografava senza posa treni merci, fari e punte rocciose immerse nella spuma dell’oceano.
In fondo, pisolare sul letto mansardato ben si accordava allo spirito filosofico del preside Lancellotti, alimentato da frequenti spuntini e da una buona dose di saggezza partenopea. Così, cullato dagli scossoni di quel camper tecnologico e accessoriato, aveva modo di meditare sul significato liberatorio del viaggio, inteso anche come metafora della vita.
“Scusa Enzo, me lo faresti un piacere?” – La voce stentorea del Generale lo distolse dalle meditazioni del dopo cena.
“ Dimmi, caro. “ rispose il preside con voce flautata, ingoiando furtivamente l’ultimo pezzo di biscotto.
“ C’ è qui Esmeralda che deve fare la pipì … Monica sta facendo la doccia e io sto trafficando nel tentativo di aggiustare questa dannata rice-trasmittente. Non è che potresti portarla tu?” La voce del Generale sembrò farsi quasi supplicante, mentre il boxer saltava festosamente dal camper inondando di bava i pantaloni puliti del preside.
“ Figurati, con piacere – rispose garbatamente il Lancellotti cercando invano di difendersi con le mani dalle esagerate espansioni di affetto della cagnetta.
Monica, avvolta in un elegante accappatoio verde smeraldo, fece capolino dalla finestra del bagno.
“Sii brava Esmeralda - raccomandò – Vai a passeggio con lo zio . Ma non tirare troppo il guinzaglio, altrimenti lo fai cadere!”
“Bravo Enzo, fatti due passi – gli gridò la moglie affacciandosi con un asciughino in mano dal predellino del camper – Così almeno digerisci il quintale di tonno e fagioli che ti sei mangiato a cena!”
“ Dai Maria, non essere esagerata – gli gridò Enzo di rimando – Ma quale cena ? Era solo uno spuntino frugale. ”
Esmeralda, frattanto, impaziente di esplorare il territorio sconosciuto, tirava il guinzaglio con la forza di un carro di buoi . Così il preside Lancellotti si allontanò dal prato e si avviò , a passo svelto, verso un gruppetto di case in pietra avvolte in un silenzio irreale.
Dopo aver superato una serie di giardinetti solitari traboccanti di ortensie rosa e violacee, si trovò di fronte l’immensità magica della brughiera.
L’orizzonte, in lontananza, disegnava una sottile linea luminosa e il rumore dell’oceano giungeva come un’eco lontana e misteriosa.
Il sentiero che imboccarono era ampio e, a tratti, sassoso. Intorno non si vedeva anima viva.
Enzo respirò profondamente l’aria frizzante della sera. Poi guardò l’orologio: erano le dieci e un quarto e il cielo incominciava appena, appena, a tingersi dei colori violacei della notte, mentre il chiarore si faceva sempre meno intenso.
Laggiù in fondo, l’immensa distesa ricoperta di erica, gli ricordò il paesaggio di un gigantesco poster che Maria aveva voluto comprare in un negozio di souvenir a Saint Malo .
In effetti, gli sembrava davvero di muoversi in una cartolina. Già vedeva la didascalia: “ Turista italiano con cane a passeggio nella brughiera bretone”. Peccato che Giuseppe fosse rimasto nel camper a leggere un libro di Pamuk. Altrimenti gli avrebbe potuto fare una foto con la sua digitale supertecnologica e, magari l’avrebbe potuta mettere per ricordo sul desktop del suo computer.
Ad un tratto, qualcosa sfrecciò sul sentiero, con la velocità di un razzo, tagliando la strada ad Esmeralda che annusava i cespugli che odoravano di salsedine. La cagnetta ebbe un fremito. Dopo un istante di perplessità, incominciò ad abbaiare furiosamente, divincolandosi e tirando il guinzaglio con un’irruenza tale che il povero Enzo, per poco non perse l’equilibrio.
“ Calma, Esmeralda. Non ti agitare – cercò di tranquillizzarla come faceva un tempo con gli studenti più indisciplinati – non lo vedi che è un animaletto inoffensivo? Sarà una lepre o, forse, una volpe … Chi lo sa se ci sono volpi da queste parti ?! “
In realtà, a pensarci bene, in quell’atmosfera un po’ inquietante, sarebbe stato più naturale veder apparire un unicorno o un’ altra bestia mitologica.
D’altra parte quelle erano le lande favolose dove gli antichi bardi avevano ambientato le leggende di amore e di avventura del “ciclo bretone”. Nessuna sorpresa, quindi, se l’ombra di qualche antico druido aleggiava ancora fra i cespugli e dietro le rocce di granito rosa, con l’innocente intenzione di terrorizzare qualche turista invadente.
“Ma non è il caso di suggestionarsi troppo- osservò ad alta voce Enzo, avvertendo un brivido di freddo lungo la schiena - In fondo, qui abitano soltanto dei contadini corpulenti e un po’ musoni. Mi sembrano abbastanza pacifici e abitudinari. Sicuramente, a quest’ora, se ne staranno tappati nelle loro casette delle fate, nascosti dietro le imposte di legno con i fiorellini sul davanzale, a bersi dei bei boccali di sidro dolciastro. E magari ci inzuppano anche quei bei biscottoni burrosi … Alla faccia del colesterolo! ”
Il preside sospirò, avvertendo il solito languorino che lo prendeva ogni sera alla bocca dello stomaco. Un languorino insistente e peccaminoso che lo costringeva ad un supplemento di cibo, ingurgitato con fastidiosi sensi di colpa, all’insaputa della moglie addormentata.
“Svelta Esmeralda, fai questa pipì, che ce ne torniamo al camper.” Ma il boxer, spinto dall’irruenta incoscienza dei cuccioli, non sembrava affatto propenso a invertire la direzione. Anzi procedeva sempre più eccitato, ansimando come un mantice e lasciando sul terreno lunghe stalattiti di bava biancastra.
Mentre il preside tentava di trascinare Esmeralda e di farle invertire il senso di marcia, laggiù, in lontananza, un’ombra scura emerse fra l’erica . Con la coda dell’occhio, Enzo la vide avvicinarsi sempre di più, finché non riuscì a distinguere chiaramente la sagoma di un cavallo con in groppa il suo cavaliere. Il rumore sempre più insistente degli zoccoli agitò la cagnetta, che tese i muscoli delle zampe posteriori, nello sforzo di liberarsi del guinzaglio.
Il possente cavallo nero si fermò a pochi passi da loro. Il cavaliere si tolse con fatica l’elmo rugginoso che teneva in testa e guardò dall’alto in basso il turista e il cane.
“Buonasera “ azzardò educatamente il preside .
Il cavaliere, che non doveva essere di primo pelo - almeno a giudicare dalla barbetta grigia e dagli occhi infossati fra le rughe - lo scrutò ancora . Infine lo apostrofò in perfetto italiano : “ Pace a te, straniero. Sei un cavaliere errante, visto che te ne vai a piedi, tutto solo, con l’unica compagnia del tuo cane.”
“ Veramente sarei un turista italiano in visita di piacere. Lancellotti Enzo, preside di un liceo toscano.”
Il cavaliere corrugò la fronte e un lampo di ira gli accese improvvisamente gli occhi grigi: “ “Dunque tu sei il fedifrago! Non ti avevo riconosciuto. Evidentemente il tradimento ti ha cambiato il sembiante.”
Ma subito dopo il tono della sua voce si placò e un velo di tristezza gli passò nello sguardo.
Ora Enzo lo vedeva benissimo, anche se era già calata la sera e tutto intorno l’immensa distesa sembrava un mare uniforme e scuro.
“ Scusi, non capisco. Forse lei mi scambia per qualcun altro …” lo interruppe timidamente Enzo, tentando di tenere a freno Esmeralda, la quale annusava morbosamente i garretti del cavallo.
“ E Ginevra, Ginevra , dov’è”- chiese agitato il cavaliere, tormentando con la mano sinistra l’elmo che teneva sotto il braccio destro.
“Lo vede che c’è un equivoco? “ gli fece notare il preside con la sua consueta calma, non scevra da un certo accento didascalico, frutto di una evidente deformazione professionale.
“ Quale equivoco? Ma se la conoscono tutti la storia! Sono secoli che se ne parla. Pensi forse che sia facile per me trascinarmi dietro l’onta dell’ adulterio di mia moglie? “
Subito dopo soggiunse , con un tono così dolente da far accapponare la pelle: “ E dire che eri il mio migliore amico. Ah, ser Lancillotto, perché mi hai fatto trangugiare un calice tanto amaro?”
Esmeralda mugolò impietosita, fissando lo sconosciuto con i suoi occhioni languidi.
“Ah, ora capisco – Enzo si illuminò – vede bene che lei mi scambia per un altro. Io mi chiamo Lancellotti, non Lancillotto e le assicuro che io la signora Ginevra non la conosco affatto. O meglio, una Ginevra la conoscevo tanti anni fa … Era un’amica di mia sorella Lina e abitava al Vomero . Era una brunetta niente male. Poi, però, sono andato a studiare in Polonia e …”
“ Bando alle chiacchiere. Se sei un cavaliere , con tanto di diploma di investitura, devi accettare la mia sfida e batterti a singolar tenzone!”
“ Senta, io comprendo benissimo che le corna le diano un certo fastidio ma deve credermi: io non c’entro niente. Da quando mi sono sposato con Maria , le assicuro che non ho più guardato una donna. Nemmeno le professoresse bellocce e scollate. Si figuri se posso essermi sollazzato con la sua signora. Ma per carità …”
Il cavaliere scosse il capo e poi sorrise con incredulo sarcasmo: “ Ah Lancillotto, Lancillotto … Un tempo eri il mio amico più fedele! Però vedo che il tradimento non ti ha fatto bene alla salute. Ti trovo ingrassato e la tua chioma non è più fluente come quella di un tempo. Anche i tuoi occhi cerulei non ammaliano più.”
“ Beh, diciamo che sono un po’ sovrappeso – ribatté risentito il Lacellotti – ma le assicuro che ho sempre un certo successo con le donne. Sebbene, come le ho già fatto notare, non ceda più da lungo tempo alle lusinghe di femmine estranee. Lei piuttosto, mi sembra un po’ giù di corda. “
“ Eh sì, purtroppo non ho più la forza di quando ero giovane. Allora sbudellavo i nemici,me la ridevo degli incantesimi, sradicavo le spade dalla roccia … Ahimè sono finiti i bei tempi della tavola rotonda! Te le ricordi quelle belle partite a tresette, con Galahad che ogni sabato sera partiva, ubriaco fradicio, alla ricerca del santo Graal ? E il povero Tristano, che si era fissato con quella bionda … come si chiamava? Ah sì, Isotta!”
Il preside guardava stralunato il suo interlocutore, mentre il vento dell’oceano faceva agitare i ciuffi di erica e piegava i cardi spinosi che sbucavano in alcuni tratti del sentiero.
Esmeralda osservava incantata la coda del cavallo che si agitava freneticamente nel tentativo di scacciare una mosca impertinente.
“ Ah – fece finalmente il Lancellotti, come folgorato da un’improvvisa intuizione – allora lei sarebbe niente meno che … re Artù!”
“ E chi altri dovrei essere se non il glorioso Artù, figlio di Uther Pendragon , fratello di Morgana, marito di Ginevra e signore di Camelot?” rispose orgoglioso il cavaliere, mentre un soffio di vento più impetuoso gli scompigliava i radi capelli grigi.
“ Strano, – commentò il preside, perplesso – come fa ad esprimersi così bene in Italiano?”
“ Caro signore, in tempi di globalizzazione bisogna attrezzarsi. Chi non sa le lingue non ha nessun futuro. Nemmeno come fantasma. Sa, l’ente del turismo bretone ci tiene a far bella figura con gli ospiti stranieri. In altri tempi una performance come questa fruttava abbastanza. Ora, invece, con l’euro, il costo della vita è aumentato anche in queste lande e, lei capirà, un re deve sempre fare la sua figura …”
“ Ho capito, – fece il preside rassegnato – le bastano venti euro, maestà? “
“ Oh, grazie, grazie, amico mio. Sei veramente magnanimo. Per compensarti del tuo buon cuore, ti perdono.”
“Di cosa, mi scusi?”
“ Ma del tradimento! Anzi, per dimostrarti che non ti serbo rancore, ti lascio Ginevra. Portatela via e non ci pensiamo più. Tanto ormai ha la cellulite e con la menopausa è diventata insopportabile . Ora devo andare, ho un appuntamento ad Avalon e si sta facendo tardi. Addio, amico mio.”
Re Artù scomparve nel buio che ormai avvolgeva completamente la brughiera.
Esmeralda rimase ad osservare il cavallo che si allontanava al galoppo, inghiottito da una nuvola di polvere.
Allora i due si incamminarono pensosi verso il prato dove li attendeva la confortante presenza del camper. Quando, finalmente arrivarono al grande prato, Esmeralda, mugolando di soddisfazione, alzò una zampina e colpì in pieno una delle ruote posteriori del mansardato .
Raffaele, che fumava un sigaro placidamente adagiato sulla sdraio, osservò seraficamente: “ E brava la nostra Esmeralda! Se ti vede il Generale …”

sabato 21 novembre 2009

PRESENTAZIONE PISTOIA GIALLI E NOIR STORICI


Laura Vignali insieme a Giuseppe Previti,Presidente degli "Amici del giallo" di Pistoia,a Susanna Daniele e a Lorenzo Del Bucchia alla presentazione del libro nei locali dell'Atelier Pellicceria Bonaiuti

domenica 15 novembre 2009

lunedì 9 novembre 2009

Profondo rosso

In un tardo pomeriggio di fine settembre, il lungomare di Viareggio pare assopito in una sorta di pigro languore. Due uomini siedono al tavolo di un bar, all’aperto, mentre una leggera brezza che viene dal mare agita la bandiera del vicino stabilimento balneare che ha tutta l’aria di aver già chiuso la stagione.
L’uomo più robusto, elegante nel suo pantalone casual chic con Lacoste dello stesso colore, apostrofa l’amico , sorseggiando il suo bicchiere di birra: “Insomma, si può sapere che diavolo ti è successo, Roberto? Ti conosco da quando avevi i calzoni corti ma ti giuro che non ti ho mai visto così sconvolto. Dimmi la verità, hai combinato qualche guaio in ditta? “
L’altro, magro e pallido in viso, abbassa gli occhi tormentando con le mani nervose la tazzina del caffè che non riesce ad avvicinare alle labbra: “Ma no, Ruggero. Non è come pensi tu …”
“Ho capito, ti sei messo nei casini per via di una donna!”
“ Ma figurati! Ti sembro il tipo?”
“ E allora dimmelo tu! Va bene che sono il tuo migliore amico ma questo non ti autorizza a farmi venire di corsa da Pisa per giocare agli indovinelli …”
“Scusami, hai ragione. Se mi prometti di non chiamare il Centro di Igiene mentale, ti racconto tutta la storia. Ma mi devi promettere che mi ascolterai senza interrompermi.”
“Va bene, sono tutt’orecchi.”
“Ecco … forse è meglio che incominci dall’inizio. Ossia da ieri mattina, quando il Mercedes mi ha lasciato a piedi per via di quella maledetta cinghia di trasmissione … Insomma, erano già le otto e mezzo e alle undici avevo fissato un appuntamento con dei clienti di Prato. L’unica cosa da fare era correre alla stazione e prendere il primo treno per Firenze. E così ho fatto.”
“Chissà come ti giravano i coglioni …”
“Non più di tanto. Che cosa dovevo fare? Mi sono comprato un giornale e ho aspettato l’arrivo del treno. Per fortuna, non è passato più di un quarto d’ora. In fondo – mi son detto – non tutti i guasti vengono per nuocere. Meglio fare un viaggio comodamente seduti su un treno di pendolari che starsene incolonnati in autostrada in mezzo a schiere di automobilisti incazzati. Così, cullato dallo sferragliare delle rotaie, ho approfittato di quel fuori programma per tirar fuori il portatile e aggiornare le schede dei clienti. Ormai ero rassegnato ad arrivare in ritardo e ti confesso che l’idea di una pausa non mi dispiaceva per niente. Comunque, la pace è durata poco. A Lucca sono saliti diversi viaggiatori e ho dovuto togliere le gambe dal sedile di fronte, dove si è seduta una signora dall’aria molto stanca.”
“Eccoci, volevo ben dire io, che era una questione di donne!”esclamò l’altro sollevando il boccale di birra con un gesto trionfante.
“ Ma che hai capito, Ruggero? Guarda che non è successo niente di quello che pensi tu.” Cioè, voglio dire che era una bella donna: alta, con i capelli lunghi color rame e due occhi verdi grandi come …”
“Come i fanali di una Porsche Carrera?”
“Ma che dici? Aveva uno sguardo talmente depresso che quasi quasi stavo per prestarle il mio fazzoletto e per invitarla a piangermi sulla spalla. Invece, ho fatto finta di nulla e ho continuato ad aggiornare il mio archivio.”
“ E lei?”
“Continuava a fissare un punto lontano fuori dal finestrino e a tormentarsi il collo della giacca con certe mani bianche … Poi, ad un tratto si è girata e i nostri sguardi si sono incrociati.”
“Tombola! L’hai colpita con il tuo charme da vitellone delle notti versiliane .”
“Per piacere, Ruggero, non mi interrompere . Dunque, siamo rimasti a quando lei mi ha sorriso. Ma guarda che non era affatto allegra. Anzi, aveva un modo di socchiudere le labbra che mi ha fatto venire una gran pena.”
“ E tu non ti sei preoccupato di consolarla? Roberto mio, non ti riconosco più!”
“Che dovevo fare? Ho sorriso anch’io e poi … una parola tira l’altra.”
“Ah, ecco. Volevo ben dire …”
“No, aspetta. Non è andata come tu credi. Insomma, lasciami raccontare. Ci siamo messi a parlare del più e del meno. Prima del tempo, poi dei disagi dei pendolari e , infine, le ho raccontato la mia disavventura con la cinghia del Mercedes.”
“Sai come si deve essere eccitata!”
“Accidenti a te, Ruggero. Guarda che la storia che ti sto raccontando non è affatto piccante. Ti assicuro che quella donna non era una che stuzzicava il genere di fantasie che pensi tu. Faceva piuttosto tenerezza. Ecco sì, una tenerezza mista ad una pena - come dire? - inquietante.”
“Avevo ragione: sei un uomo finito!”
“Aspetta, ora viene il bello. Dunque, fra una chiacchiera e l’altra, quasi senza accorgersene, ci siamo ritrovati alla stazione di Pistoia. Ma qui, non c’è stato verso di ripartire.” Anche il treno aveva deciso di guastarsi la stessa mattina del mio fottutissimo Mercedes. Era evidente che il Destino si divertiva sadicamente ad accanirsi su un povero rappresentante di commercio. Colpevole soltanto di voler vendere una partita di affettatrici professionali troppo costose ad un paio di ingenui alimentaristi pratesi. Ma la mia compagna di viaggio non si è turbata minimamente. Anzi, mi è sembrata addirittura contenta di quell’incidente imprevisto, tanto che non ha esitato ad invitarmi a casa sua a prendere un caffè. Mentre scendeva sfiorando il predellino del treno con passo lieve, mi ha detto che abitava a due passi dalla stazione e mi ha rassicurato che avrei potuto aspettare comodamente il treno successivo e arrivare a Prato quasi in orario.”
“Hai capito, il vecchio marpione? Hai approfittato del guasto per imbroccare la viaggiatrice depressa, eh? E invece di pensare alle affettatrici … ”
“Mi dispiace deluderti, Ruggero. Le cose sono andate in tutt’altro modo. Ma se continui a interrompermi, non saprai mai come è finita questa storia incredibile …”
“Incredibile in che senso?”
“Ascoltami in silenzio e giudica tu. Dunque, appena scesi, lei ha imboccato un vicolo poco distante dalla stazione e si è fermata davanti al portone di un palazzo piuttosto malconcio. L’ha aperto con una chiave di quelle che usavano prima e mi ha fatto strada su per le scale. Infine, dopo due rampe piuttosto ripide, mi ha fatto entrare in un appartamentino vecchio ma dignitoso. Ti dirò, sembrava che non ci abitasse nessuno perché c’era aria di chiuso e i mobili erano polverosi. Ma non ci ho fatto caso e mi sono seduto in salotto.”
“E’ lì che è successo il fattaccio?”
“Ma che dici? Abbiamo preso il caffè e ci siamo fumati una sigaretta. Proprio come due vecchi amici. Dopo una ventina di minuti, l’ho salutata, ringraziandola per l’ospitalità e me ne sono tornato alla stazione, dove ho preso il treno che finalmente mi ha portato a Prato.”
“Tutto qui?” fece Ruggero, chiaramente deluso.
“Eh no! E’ questo punto che sono rimasto fregato dal terzo inconveniente della giornata.”
“E sarebbe?”
“Dopo aver rifilato ben cinque affettatrici agli alimentaristi pratesi, ho scoperto di aver lasciato il cellulare a casa della mia compagna di viaggio.”
“ Accidenti … e come hai fatto?”
“Sono tornato di nuovo a Pistoia e sono corso nel vicoletto, con la speranza di trovarla in casa.”
“E l’hai trovata?”
“Macchè! Ho suonato diverse volte ma non mi ha risposto nessuno. Il palazzo sembrava disabitato. Proprio mentre stavo per rassegnarmi a ricomprare il cellulare, da una finestra del primo piano,si è affacciata un’anziana signora che mi ha chiesto chi stavo cercando. Mi sono sentito riavere. Ma, quando le ho spiegato della visita della mattina, lei mi ha guardato stralunata, poi ha scosso la testa e mi ha fatto cenno di salire. Pochi istanti dopo ero seduto nel suo salottino ma, stavolta, lo stralunato ero io!”
“E perché mai? Che ti ha detto di tanto sconvolgente?”
“Niente di straordinario se non il fatto che, secondo lei, quella mattina io non potevo essere stato al piano di sopra perché quell’appartamento era chiuso da vent’anni. Ossia da quando la proprietaria, che era sua sorella, era morta tragicamente vicino a Lucca, gettandosi da un treno in corsa. Ti rendi conto, Ruggero? In quel momento mi è sembrato di essere improvvisamente impazzito o di aver sognato tutto mentre dormivo in treno …”
“ Sei sicuro che la vecchia non fosse pazza?”
“Non lo so. Ricordo soltanto che mi è venuta una gran voglia di fuggire. Ma quella sembrava che non avesse nessuna intenzione di lasciarmi andare e continuava a raccontarmi di quanto era bella e infelice quella sorella che si era ammazzata per una delusione d’amore. Credevo di essere diventato pazzo anch’io! Allora ho tagliato corto e ho fatto il gesto di andarmene.
Ma, mentre stavo per scendere le scale, dal piano di sopra è risuonata all’improvviso una musichetta che conoscevo bene: le note di “Profondo rosso”, che mio nipote si era divertito a inserirmi come suoneria del mio cellulare.”
“ Ehi, vuoi scherzare?”
“Non sono affatto nello spirito. Ti assicuro che in quel momento mi sono sentito gelare. Proprio come se una lama delle mie affettatrici mi avesse accarezzato la schiena.
“Immagino che tu te la sia data a gambe …”
“L’avrei fatto sicuramente se la vecchia non mi avesse preso per un braccio e mi avesse spinto su per le scale.
“E tu non hai reagito?”
“ E che cosa dovevo fare? L’ho seguita e mi ha portato nell’appartamento dove ero già stato la mattina. Non ti dico come mi sono sentito quando non riusciva ad aprire la porta perché la serratura era arrugginita. E vedessi che polvere che c’era in salotto!”
“Mi sembra proprio una storia assurda! Sei sicuro di non esserti fatto una canna?”
“ Aspetta … lo so che tu pensi che io sia ammattito ma ti giuro che sul tavolo c’erano le stesse tazzine dove io e lei avevamo bevuto il caffè quella stessa mattina. E ti dirò di più: nel posacenere c’erano anche le due cicche delle sigarette che avevamo fumato insieme chiacchierando del più e del meno.”
“Non è possibile! Di sicuro è stato un caso di suggestione …”
“ Suggestione un accidente!Avrei voluto vedere te al posto mio. Mi tremavano le gambe e ho incominciato a sudare freddo. E, intanto, la vecchia continuava a mostrarmi i mobili della sorella. Poi , ad un tratto l’ho visto!”
“Chi?”
“Ma il mio cellulare, no? Se ne stava, muto, sulla sedia dove mi ero seduto la mattina. A quel punto ho perso la testa e ho infilato la porta. Ho fatto le scale di corsa e, una volta in strada, mi sono messo a correre all’impazzata con la borsa del computer che mi sbatteva sui polpacci . Francamente non ti so dire come abbia fatto a salire sul treno e a tornarmene a Viareggio …”
“Accidenti, Roberto, che storia! Sei sicuro che non si sia trattato di un incubo? Magari hai mangiato pesante, poi ti sei addormentato e …”
“Lo sapevo che non mi avresti creduto. Mi domando perché ti abbia raccontato tutta questa storia assurda. Cameriere, il conto, per favore …”
“Lascia stare, offro io! Senti, Roberto forse è il caso che tu prenda un po’ di ferie. Credo proprio che non ti farebbe male una bella chiacchierata con quel dottore di Pisa. Sì, quello che ti curò quando ti venne quel brutto esaurimento nervoso …”
I due amici si alzano dal tavolo. Ruggero dà una pacca protettiva sulla schiena di Roberto e insieme si avviano verso il parcheggio, mentre i primi lampioni si accendono ad illuminare il lungomare quasi deserto.
“Allora, stammi bene e dai retta a me: ci deve essere una spiegazione logica. Anzi, guarda, non ci pensare più!”
“Già, è come dirlo …”
E mentre cerca le chiavi dell’auto che gli ha prestato il suo meccanico di fiducia, dalla tasca dei pantaloni cade un oggetto metallico che finisce sul marciapiedi.
Istintivamente, Roberto si china per raccoglierlo. Ma, prima ancora di vedere sa già di che cosa si tratta. E’ l’accendino della sua compagna di viaggio che lui ha distrattamente messo in tasca dopo essersi acceso la sigaretta.

Presentazione "Toscana a luci rosse" a Pistoia

domenica 8 novembre 2009

venerdì 16 ottobre 2009

SCUOLA SCRITTURA

PRESENTAZIONE PISTOIA GIALLI E NOIR STORICI

Sabato 24 ottobre
Ore 17,15
PRESENTAZIONE
PISTOIA GIALLI E NOIR STORICI
MARCO DEL BUCCHIA EDITORE
delbucchia.it
Racconti di Fabio Baldassarri,
Cristina Bianchi, Susanna Daniele,
Stefano Fiori, Jacqueline Monica Magi,
Giuseppe Previti, Enrico Tozzi, Laura Vignali.
Intervengono, oltre agli autori, Marcello Paris e
Alberto Cipriani. Ingresso libero.
La Sala Sinodale dell’Antico Palazzo dei Vescovi
è stata gentilmente concessa dalla
Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia S.p.A.
Sala Sinodale
Antico Palazzo dei Vescovi
Piazza Duomo Pistoia

martedì 6 ottobre 2009

Presentazione Toscana a luci rosse


Sabato 10 ottobre , alle ore 16, al Pisa Book Festival (al palazzo dei congressi)
verrà presenta l' antologia di racconti gialli appena pubblicata dall'Editrice Laurum: Toscana a luci rosse .

Gli autori sono: Paola Alberti, Luca Bandini, Lucia Bruni, Daniele Cambiaso, Marcello Cimino, Antonella Cocolli, Susanna Daniele, Stefano Fiori, Franco Foschi, Leonardo Gori, Roberta Lepri, Angelo Marenzana, Maurizio Pagnini, Riccardo Parigi, Rosalba Pigri Tiezzi, Giuseppe Previti, Roberto Santini, Enrico Solito, Massimo Sozzi, Laura Vignali.

martedì 15 settembre 2009

Intervista a Laura Vignali



Ne "L'Almanacco del giallo toscano" edito da Marco Del Bucchia c'è l'intervista di Giuseppe Previti dal titolo "Fuoco incrociato . Bruno Ialuna vs Laura Vignali"

giovedì 10 settembre 2009

NUOVO RACCONTO

Le moules e il léon

www.thrillermagazine.it/rubriche/8477/

venerdì 31 luglio 2009

RACCONTI

LINK DEI RACCONTI PUBBLICATI

L'ultimo Eurostar per Anna K.
Scacco matto alla farfalla

www.corrieral.it rubrica di Anelo Marenzana:


La vendetta del policarbonato
http://www.thrillermagazine.it/rubriche/7060

Girardengo e la frittella fatale
http://www.thrillermagazine.it/rubriche/7353

Nèmesi e sogliole
http://www.thrillermagazine.it/rubriche/8211

Peperoni sul Bosforo
http://www.thrillermagazine.it/rubriche/7712

EROS E THANATOS
http://www.thrillermagazine.it/racconti/6558/1

Incontri ravvicinati nella brughiera

http://www.thrillermagazine.it/rubriche/7541/

sabato 16 maggio 2009

INCONTRO V ELEMENTARE DELLA SCUOLA "G.GALILEI" DI PISTOIA

UN GRAZIE PER LA CALOROSA ACCOGLIENZA DA PARTE DELLA V ELEMENTARE DELLA SCUOLA "G.GALILEI" DI PISTOIA
IL 15 MAGGIO,GIUSEPPE PREVITI ,PRESIDENTE DELL'ASSOCIAZIONE "AMICI DEL GIALLO" E LAURA VIGNALI HANNO INCONTRATO GLI ALUNNI DELLA MAESTRA ANNA LINDA MANZONI, CON I QUALI SI SONO INTRATTENUTI PIACEVOLMENTE SUL TEMA " LA PROSSIMAMENTE, OGNUNO DI LORO SCRIVERA' IL SUO TESTO CON LA RELATIVA SOLUZIONE DELL' ENIGMA . COMPLIMENTI AI RAGAZZI PER LA VIVACE PARTECIPAZIONE, E PER LA CREATIVITA' DIMOSTRATE . UN RINGRAZIAMENTO ANCHE ALLA LORO INSEGNANTE CHE HA SAPUTO ABITUARLI A DIALOGARE CON ARGUZIA E SPONTANEITA' E AD ESPRIMERE LE LORO IDEE IN MANIERA EDUCATA E CIVILE.

sabato 25 aprile 2009

Corso di scrittura alla biblioteca S.Giorgio di Pistoia.


24 aprile “Notte bianca “ alla biblioteca S.Giorgio di Pistoia.
Corso di scrittura a cura del “Club del giallo” tenuto da Cristina Bianchi e Laura Vignali

sabato 28 febbraio 2009

ULTIMA LETTERA

Eccoci qui. Tu ed io da soli. In attesa che passi questa lunga notte, rotta soltanto dal gorgogliare dell’ossigeno e dai rari passi di un’infermiera che si dilegua nel corridoio.
Guardo fuori dalla finestra . L’ospedale sembra un immenso alveare. Le camere sono come celle, rischiarate da una luce fioca , nelle quali qualcuno veglia, aspettando con rassegnata impazienza che spunti di nuovo il giorno.
Le lancette dell’orologio si muovono con una lentezza estenuante. E’ passata da poco la mezzanotte …
Se mi metto in ascolto, mi sembra persino di udire l’ansimare faticoso che proviene dalle finestre del padiglione accanto. E’ la voce sommessa di un dolore privato che, forse, vorrebbe essere condiviso.
Ogni volta che il babbo si muove, la flebo che gli strazia il dorso delle mani oscilla dolorosamente, come se volesse staccarsi da sola. Come se avesse pietà di quella carne straziata.
Il mio sguardo vaga per la stanza, soffermandosi sul raggio di luce che filtra dal corridoio e va ad illuminare la striscia di linoleum verdastro del pavimento.

Babbo, cerca di dormire. Ti prego, non ti muovere, altrimenti il filo si stacca. Lo so che mille pensieri ti si affollano nella mente. Una mente stanca e affannata, nella quale le immagini del passato e del presente si sovrappongono in maniera illogica e confusa. Stai tranquillo. Ora ti bagno le labbra con questa specie di spugna. Lo so che non ti piace ma ti aiuta a combattere l’arsura che ti consuma, senza pietà, la lingua e le labbra screpolate. Hai ragione a respingerla. Fa effetto anche a me. Ci manca solo l’aceto e sembra una scena da Calvario …
Non sopporto che tu rimanga sveglio. Vorrei vederti sempre addormentato. E finalmente sereno.

Nonostante i calmanti, è di nuovo sveglio. Se almeno fosse lucido, cercherei di recuperare in poche ore tutto quel tempo che ho perso in mezzo secolo di vita. Gli direi tutto quello che non gli ho mai detto. Per fatica, per pudore o, forse, semplicemente per noncuranza.

Vedi, ora che di tempo ne abbiamo poco, vorrei raccontarti tutto quello che non ti ho mai raccontato prima. Sì, perché io e te abbiamo parlato troppo poco. E ora mi trovo a tentare, invano, di riannodare un filo tenue, tenue che sta per strapparsi completamente.
Già, io e te abbiamo vissuto accanto per tanti anni ma i nostri mondi so no sempre stati estranei l’uno all’altro.
Ed era inevitabile che lo fossero. Che ne sapevi tu delle storie che leggevo da bambina, dei mondi che immaginavo, della musica che ascoltavo? Tu eri tutto preso dal lavoro.
Se, da bambino, invece di farti lavorare, ti avessero potuto mandare a scuola, sicuramente la tua vita sarebbe stata diversa. Chissà! Forse ti saresti risparmiato tanta fatica e tutti quei calli nelle mani. Ma a te è sempre piaciuto lavorare.
Da giovane, eri orgoglioso di sollevare le damigiane del vino. Da vecchio ti sei accontentato di trascinare, fischiando, il carretto carico di acqua minerale per le strade del centro.
Io, invece, ho studiato al liceo classico. Tu mi hai pagato i libri, i corsi d’Inglese, il teatro e, infine,anche l’università. E lo hai fatto senza chiedermi niente . Ma, soprattutto, senza mai farmi sentire in debito.
Te lo ricordi, babbo, quando, da bambina , la domenica mattina, mi portavi con te nei paesi vicini a vendere le bottiglie?
Era divertente, negli anni ’60, fermarsi con il furgoncino nella piazza e aspettare le massaie che uscivano di casa per comprare l’amaro, il vermouth e la sambuca.
Mi torna in mente soprattutto l’odore di arrosto che si diffondeva fra le case all’ora di pranzo. Era un odore che metteva addosso un’allegria semplice. Un’ allegria che in età adulta non ho più provato.
Sono immagini e sensazioni lontane ma intense, che mi tornano alla mente come per miracolo, proprio ora che la stanchezza e la nostalgia fanno a gara ad occuparmi i pensieri. Sembra quasi che queste lontane impressioni, ormai offuscate dal tempo, si siano messe d’accordo con questo fiume di ricordi per mettermi fretta. E per spingermi a sussurrarti quelle poche, semplici parole che non ti ho mai detto.
I minuti sembrano scorrere più lenti della goccia che scende dalla flebo, nel vano e impossibile tentativo di restituirti la vita che ti fugge dalle vene.
Vorrei chiudere gli occhi e assopirmi. Così la luce dell’alba vincerebbe in un baleno questa notte che non vuole passare.

Lo sguardo vola di nuovo oltre la finestra. Osservo i fari delle poche auto che sfrecciano lungo l’asfalto, fendendo con la loro luce abbagliante il buio del viale. Sotto di noi, nel parcheggio quasi deserto, qualche auto solitaria sembra vegliare un dolore segreto. Un dolore che si consuma qui dentro, ovattato dai passi felpati e dall’odore acre del disinfettante.

Per favore, cerca di dormire. Non ti preoccupare della bottega. Ci penserà Luciano a portare i bottiglioni di rosè al bar di via degli Orafi. Domani ci penserà lui. Lo so che l’ultimo dell’anno non hai fatto in tempo perché il bar ha chiuso prima. Non è colpa tua.
Cerca di chiudere gli occhi. E magari ripensa ai momenti di serenità. Così la notte passerà più in fretta.
Sono appena le due e un quarto …
Ora chiudo gli occhi anch’io. Cerca di ricordare insieme a me, mentre ti tengo la mano stretta nella mia.
E’ un gioco che funziona, babbo. Ascoltami …
Mi viene in mente una domenica mattina di un paio di anni fa, quando ce ne andammo a cercare i finocchi selvatici vicino a Torbecchia … Tu ed io insieme. Erano anni che non succedeva. Lo sai che mi sono divertita davvero? Mentre ti arrampicavi sui cigli come un ragazzino, io arrancavo dietro di te, tutta sudata, sotto il sole di maggio.
Avrei dovuto accompagnarti più spesso a cercare i funghi e l’insalata di campo. Invece non l’ho fatto ...
Te lo ricordi quando mi insegnavi a guidare per i tornanti polverosi di Pian del Pesco?
Intanto gli anni sono scappati via. Sei invecchiato, babbo, ma non ti è mai passata la voglia di salire per i crinali scoscesi delle montagne e di arrampicarti in mezzo ai faggi e ai castagni.
Hai fatto chilometri con il passo sicuro di chi conosce la selva,. passando in mezzo ai rovi e risalendo i torrenti. E sempre cercavi con lo sguardo i segni della fungata che faceva capolino, nascosta dalle foglie.

La luce che viene dal corridoio mi riporta alla realtà. Dalla camera accanto si sente un lamento monotono. Quasi una litania. Accosto la porta quel tanto che basta per non rimanere al buio.

Ecco, ora siamo soli. Io e te. Con i nostri ricordi. Con i nostri discorsi mai pronunciati e il nostro affetto inespresso.
Ma forse sono stata solo io a non saper trovare le parole. Proprio io che ho letto tanti libri …
Avrei potuto gratificarti di più, farti sentire ancora utile e importante.
Tu, invece, mi hai sempre saputo dire parole tenere , con la semplicità di chi parla un linguaggio antico, fatto di proverbi e di frasi quotidiane.
Coraggio, sono già le quattro e fra poco un filo di luce incomincerà a filtrare dai fori del rotolante …

Entra un’infermiera. Con i gesti sicuri di chi è abituato al dolore degli altri, sostituisce la bottiglia vuota della flebo con un’altra piena. Ricomincia lo stillicidio estenuante della goccia che cade … Gli rimbocca le lenzuola e gli sussurra qualche parola di incoraggiamento. Come si fa con i bambini. Capisco che la sua è una lotta pietosa destinata alla sconfitta. Non si può far ripartire un corpo straziato che non funziona più. Se ne va, silenziosa come era entrata, lasciandosi dietro il solito odore di ospedale.

Non ti scoprire. Lo so che non li vuoi più tutti quei fili. Ma tu non ci pensare. Presto andremo insieme a cercare l’insalata di campo. Le cicerbite, la valeriana, il radicchio, gli asparagi selvatici …
Ecco, non siamo più in questa camera d’ospedale. Lo vedi? Siamo nel bosco. Di nuovo, tu ed io da soli. E camminiamo insieme sul tappeto di foglie secche, mentre i rami ancora spogli disegnano un ricamo intricato contro il cielo.
Rallenta il passo, babbo. Non ce la faccio a starti dietro ….

giovedì 19 febbraio 2009

Nèmesi e sogliole




Nèmesi e sogliole


La signora Miranda alzò gli occhi dalla pagina 128 della “Vita della beata Salvina”.
Ogni giorno, appena sveglia, prima ancora del caffè, quel testo edificante l’aiutava a meditare sui frutti della santità e le dava la giusta carica energetica per affrontare le difficoltà quotidiane di “questa valle di lacrime”.
Dalle persiane socchiuse della stanza da letto filtrava un debole raggio di luce. Miranda spense l’abatjour e, con l’aria appagata, chiuse il libro. Ma, nello stesso tempo, non poté fare a meno di gettare la solita occhiata di commiserazione all’indirizzo del comodino di suo marito, letteralmente invaso da un esercito di volumi immorali che, a suo giudizio, avrebbero inesorabilmente condotto il suo perverso consorte alla perdizione finale . Bastava leggere i titoli. “Dalla littorina al pendolino”, “Uomini e treni”, “ La ferrovia delle Dolomiti”, “Il binario racconta”, e ancora: “Locomotive da corsa”, “La direttissima degli Appennini”, fino alla monografia moralmente più pericolosa: “Ferrovie e miniere in Toscana”.
Mentre la signora sospirava con riprovazione, Gualtiero Bianchi Bindi, ingegnere della Breda in pensione , aprì rumorosamente la porta spingendola con un ginocchio, dal momento che le sue mani erano occupate da una pila di scatole, che teneva miracolosamente in bilico una sull’altra.
“ Allora io vado a Prato. C’è l’assemblea dei fermodellisti e , siccome bisogna eleggere il consiglio direttivo, può darsi che faccia tardi … Anzi, guarda, alla tua ora, mangia da sola. Io mi arrangio con un panino al bar della stazione. Ciao Miranda!”



L’ingegnere si dileguò in un batter d’occhio con il suo carico di modellini ferroviari, ansioso di farli girare sul plastico della Direttissima che faceva bella mostra di sé negli scantinati della stazione di Prato.
“ Non vedo l’ora di provare il nuovo carro gru di Linea Model. L’ho assemblato con tanta fatica. Ma è venuto quasi perfetto. Farò crepare d’invidia il Bagazzini …” gongolava fra sé e sé mentre imboccava l’autostrada.
Dopo tanti giorni di pioggia, il cielo sembrava volgere al sereno. I campi erano avvolti in una nebbiolina leggera ma nell’aria si incominciava già ad avvertire la fine dell’inverno.
Gualtiero si sentiva libero. Libero e quasi felice.
Ad essere sinceri, da quando aveva deciso di dare una svolta alla sua vita, qualche vago senso di colpa si era talvolta insinuato fra i progetti e i sogni di redenzione. Ma li aveva subito ricacciati indietro, confortato da milioni di giustificazioni assolutorie.
Come si poteva tollerare più a lungo la convivenza con Miranda senza imboccare il vicolo cieco della paranoia? Non che lui avesse niente da ridire sui digiuni, le veglie di preghiera e gli esercizi spirituali della consorte … Ma, si sa, anche l’individuo più paziente, prima o poi, arriva ad un bivio. L’alternativa era una sola: continuare a mortificarsi o cercare di assaporare qualcosa di diverso prima che fosse troppo tardi. Così, un pomeriggio noioso, nel buio della sua cantina attrezzata a officina, mentre osservava pensoso il 656 Caimano che sfrecciava impavido da una galleria, aveva finalmente deciso di uscire dal buio.
“ Non posso dire che Miranda sia cattiva! – pensò a voce alta, mentre la sbarra del telepass gli apriva la via verso orizzonti che odoravano di libertà – Diciamo, piuttosto, che , con il passare degli anni, ha accentuato un po’troppo gli aspetti ossessivi e rituali del suo carattere. Capisco la genuina religiosità ma tutta quella mortificazione delle passioni terrene, a lungo andare, diventa proprio insopportabile.”
Superata la rotonda di Pratilia, l’ingegner Bianchi Bindi si era ormai convinto di avere tutte le ragioni per riconquistare la sua perduta libertà .
Una volta parcheggiata la Megane Scenic nel piazzale della stazione, ogni residuo senso di colpa era definitivamente evaporato insieme alla brina del mattino , cosicché si diresse, fischiettando con passo deciso, verso la sede del gruppo fer modellistico pratese.


Miranda aveva già indossato il pellicciotto sintetico e stava per chiudere la porta di casa, quando si accorse di aver dimenticato la bolletta del consorzio Ombrone già scaduta da un mese.
“Ma dove l’avrò messa? – si chiese mentre rovistava nella borsetta – scommetto che l’ha nascosta Gualtiero, in mezzo a tutti i suoi fogliacci …”
La signora entrò sbuffando nello studio. Incominciò a rovistare sulla scrivania del marito, affollata di giornali e di mille misteriosi oggetti indispensabili ad un fermodellista degno di questo nome. Due decoder caddero a terra. Miranda non si curò di raccoglierli. Tutti quei demoniaci aggeggi sparsi ovunque per la casa avevano il potere di innervosirla fino a farle compiere gesti distruttivi e pericolosi per la pace familiare.
Gualtiero lo sapeva e, quando sua moglie decideva di mettere ordine, si rifugiava immediatamente nella cantina, per la quale era riuscito ad ottenere lo status di “zona franca”. Lì poteva dare libero sfogo alla sua passione, senza subire attentati e ritorsioni.
“ Scommetto che l’ha infilata in qualche cassetto, scambiandola per l’ abbonamento a una di quelle sue stramaledette riviste . Che vuoi che gli importi se dopo arriva la soprattassa? Già, lui non si occupa delle faccende di casa ... è troppo preso dai suoi trenacci!”
Miranda si scostò dagli occhi un ciuffo di capelli grigi sfuggito al fermaglio e aprì con violenza il cassetto della scrivania. Subito lo sguardo le cadde su una busta azzurrina che se ne stava tranquillamente adagiata sull’ultimo avviso della riunione mensile del “Gruppo fermodellistico Porrettana”. Incuriosita , la prese in mano, non senza un inspiegabile timore.
La busta non era chiusa e il foglio, anch’esso azzurrino, sgusciò fuori senza opporre alcuna resistenza. Anzi, sembrava che non vedesse l’ora di essere letto.
Toh, la lettera era indirizzata proprio a lei! Quindi non era indiscreta se si soffermava a leggerla in anteprima …
Quanti anni erano che suo marito non le scriveva? Almeno dai tempi in cui frequentavano i campi scout .

Cara Miranda,
mi dispiace dirtelo così, per scritto, ma sai che sono sempre stato un po’ vigliacco e che non sono più capace di sostenere quel tuo sguardo da Savonarola indignato. Sì, è vero, non ti sopporto più. Specialmente quando mi rimproveri perché non seguo le direttive ecclesiastiche e mangio le salsicce il venerdì.
Quello che sto per compiere è, in effetti, un atto poco ortodosso. Diciamo pure che è una carognata. Ma ti assicuro che ci ho pensato bene e ho deciso che preferisco affrontare la punizione divina riservata agli adulteri piuttosto che continuare a sopportare una routine che mi rende profondamente infelice.
Ti posso assicurare che, se non ci fossero stati i pomeriggi a Barbaricina, nel retrobottega dell’elettricista pisano e i viaggi con “Gli amici della Porrettana”, mi sarei già sparato con la carabina della buon’anima del nonno Athos. Ma ho fatto bene a resistere fino ad ora perché la Provvidenza ( o chi per lei) ha avuto pietà di me e mi ha voluto concedere una possibilità di fuga, proprio sulla soglia dell’andropausa. Questa possibilità ha un nome: Ljudmila. E anche un aspetto che tu non esiteresti a definire “peccaminoso”: venticinque anni, bionda, occhi verdi, più curve della Faentina.
Insomma avrai capito che sto per partire con lei verso una nuova esistenza in terra moldava. Meno ascetica ma sicuramente più appagante.
Per risarcirti del mio ignobile, ma per me salvifico, tradimento, ti lascio una parte dei nostri risparmi, la casa e, con un gesto di profondo affetto nei tuoi confronti, tutti i miei modelli. Abbi cura di loro, per rispetto alla nostra passata vita in comune. Ti saluto e ti auguro di trovare la serenità, magari in uno di quei bei conventi Bed & breakfast che vanno tanto di moda.
Baci, tuo Gualtiero.

Miranda lasciò cadere il foglio, insieme a due biglietti aerei.
Li raccolse con le mani tremanti e lesse un nome che non aveva mai sentito: Chisinau.

L’ingegner Bianchi Bindi appoggiò i trenini sulla cassapanca dell’ingresso ed entrò nel salone con fare circospetto.
Miranda lo accolse seduta su un panchetto di fronte al camino acceso: “ Allora, come sono andate le elezioni del consiglio direttivo?”
Gualtiero rimase stupito dal suo tono di voce stranamente calmo, privo di quell’accento astioso che da troppi anni avvelenava ogni tentativo di dialogo.
Ma non ci fece troppo caso. Forse Miranda era soddisfatta per il successo della fiera di beneficenza. O per la sospensione “a divinis” di qualche prete eretico e fedifrago.
“ Bene, bene … - rispose distrattamente , togliendosi il piumino sponsorizzato Rivarossi - Sei pronta per il viaggio a vapore di domani?”
Era il momento buono per tirare fuori il cartoccio delle salsicce che aveva comprato, come ogni venerdì, dal norcino vicino alla stazione di Prato.
Quando lui prese la griglia e la pose in mezzo ai ceppi incandescenti , Miranda non fece neppure la solita smorfia di disgusto. Lo lasciò fare, osservando con lo sguardo perso le fiamme che proiettavano ombre surreali sul muro di fronte e le scintille che schizzavano come stelle cadenti. Istintivamente le venne da esprimere un desiderio. Un desiderio che si sarebbe ben presto trasformato in realtà …
E mentre Gualtiero si sporgeva in avanti per girare le salsicce sulla griglia, Miranda capì che era giunto il momento.
“ Mi è andata di lusso. Lo sai che volevano eleggermi tesoriere? Figurati se avevo voglia di prendermi una simile responsabilità. Alla fine sono riuscito a convincerli e abbiamo votato tutti per Brunello. Sai, quello che sa sempre tutto e che non vuole essere contraddetto … Accidenti, questa si è quasi bruciata.”
L’ingegnere si protese verso la fiamma per recuperare la salsiccia sfuggita al forchettone. E fu in quel mentre che Miranda, preso l’attizzatoio, lo scagliò, con la precisione di un lanciatore olimpionico, sulla nuca del marito.
Il colpo fu talmente inatteso che lui non si accorse di nulla. Il suo viso accaldato passò, in meno che non si dica, dalle fatiche dell’arrosto alla pace eterna.
La salsiccia, ormai carbonizzata, emise le ultime gocce di grasso, che andarono a soffriggersi sulla pietra del camino, simili a saporite lacrime di compianto.
Miranda osservò imperturbabile la camicia di flanella che prendeva fuoco . Quando, infine, le fiamme avvolsero anche i pantaloni di velluto insieme al corpo massiccio e sanguigno di Gualtiero, aprì la finestra , respirando voluttuosamente l’aria della notte, mista al fumo che si sprigionava da quel rogo purificatore.



“ Bella grigliata ieri sera, eh Miranda? Il fumo è uscito dal comignolo per tutta la notte. E che odorino ! Era rosticciana? Immagino che abbiate avuto diversi invitati … “
La vicina di casa, nota per la sua totale assenza di riservatezza, tentò di continuare la conversazione per acquisire qualche altro indizio utile per la sua indagine.
Ma Miranda aveva fretta e la chetò con cortese fermezza: “ Già, una cena con qualche amico di mio marito.”
“Ah, ecco perché avete affumicato tutto il quartiere! Si sa, queste riunioni fra uomini vanno per le lunghe: una mangiata, diverse bevute, una partitina a tre sette, qualche sigaro, un cognacchino … Ci vuole pazienza, cara la mia Miranda.”
“ Altro che pazienza ! Arrivederla Silvana.”
”Arrivederla … e mi saluti Gualtiero! ”
“ Grazie, presenterò. ”, rispose Miranda, sporgendosi dal finestrino, mentre avviava frettolosamente il motore della Seicento.
Mezz’ora dopo arrivò trafelata alla stazione di Pistoia, dove una folla chiassosa e festante si accalcava vicino ai binari.
La locomotiva a vapore, tutta imbandierata, scalpitava in attesa della partenza, mentre due fuochisti con il viso impiastricciato di fuliggine gettavano il carbone nella voragine del forno.
Miranda stava per dirigersi verso la carrozza di coda quando un nugolo di bambini guastatori fu lì lì per investirla. La salvò un signore distinto, con il piumino del “GFP”, che la spostò appena in tempo.
“ Stia attenta, signora Miranda. Questi fermodellisti in erba sono alquanto pericolosi. Ma dov’ è Gualtiero?”
“Buon giorno, presidente. Sono sola, purtroppo. Mio marito si è svegliato con una brutta sciatalgia e ha preferito rimanere a letto. Io non volevo venire ma lui ha insistito tanto …”
“ Mi dispiace per il povero Gualtiero . Su, salga con noi. Vedrà che si divertirà di sicuro!”
“ Ehi, il treno parte, sbrigatevi!” , urlò dal predellino un giovane alto, armato di telecamera.
“Presidente, in carrozza!”, urlò un altro aggiustandosi il cappello a tesa larga che sapeva di fumo.
In quel mentre l’orchestra dei Paracadutisti intonò le note struggenti di un famoso pezzo di Glenn Miller. Gli ultimi passeggeri, come in una vecchia cartolina d’inizio secolo, si affrettarono a salire sulle carrozze storiche. Alcuni di loro, affacciati ai finestrini, salutavano con i fazzoletti, altri si stipavano sui sedili di legno, incuriositi dalla novità e affannati dalla corsa.
Il capostazione fischiò. La locomotiva sbuffò e, con un’ultima potente impennata, si slanciò, ansante, pronta ad affrontare l’arduo percorso della Porrettana, accompagnata dal rumore dello scappamento.
Il Presidente del “GFP” sospirò estasiato:“ Notate il sublime biellismo!”
“ Questa sì che è poesia …”, gli fece eco Aldemaro, affacciandosi al finestrino e aspirando, voglioso, l’aria impregnata di fumo.
Miranda taceva, seduta in maniera composta sul suo sedile.
Il Paolatti si tolse il cappello e sedette di fronte a lei: “ Così Gualtiero ci ha tirato il bidone, eh? Glielo dico sempre che non ha più l’età per certe bisbocce. Scommetto che gli è venuto anche il suo solito bruciore di stomaco …”
Miranda gli rispose con fare distaccato, mentre tirava fuori dalla borsa un libriccino dalla copertina rosso cardinale: “ Già, sì, proprio il bruciore!”
Nessuno dei presenti osò più distoglierla da quella che sembrava una lettura davvero avvincente.
Solo il giovane Simeone provò a sbirciare il titolo e ne rimase sinceramente colpito: “La fiamma del peccato”.
“ Ognuno ha le sue perversioni”, sentenziò fra sé e sé, pensando con rimpianto alla cabina del macchinista a lui preclusa. E dire che avrebbe potuto dispensargli qualche utile consiglio tecnico!
Frattanto, la locomotiva si avventurava impavida lungo i binari e ad ogni stazione si ripeteva la solita scena di Pistoia.
Ogni volta che ripartiva era un’apoteosi. Una celebrazione densa di allegra nostalgia e, al tempo stesso, una manifestazione futurista. Un rito per iniziati. Un vero e proprio inno al vapore!
Superato trionfalmente anche il mitico Ponte alle Svolte,il macchinista aumentò la velocità, lasciandosi dietro un acre odore di fumo.
Miranda era sempre più assorta nella sua lettura, in uno stato di imperturbabile distacco.
Solo quando giunsero all’altezza della Galleria dell’Intronato, la signora si alzò come un automa.
Si avviò nel corridoio, lanciò un’occhiata tutto intorno e, quando si fu accertata di essere sola, tirò fuori dall’inseparabile borsa una scatolina di legno della Roco Collection.
L’aprì con compassata ritualità, facendo scorrere il coperchio. Poi si affacciò al finestrino e, con gesto quasi sacerdotale, lasciò che la polvere contenuta nella scatola cadesse leggera lungo i binari, subito dispersa dal vento frizzante dell’Appennino.
“Addio, Gualtiero …” mormorò Miranda, accompagnando le parole di affettuoso commiato con un’ impercettibile smorfia delle labbra.


Quel pomeriggio, l’ aeroporto di Pisa non era particolarmente affollato. Se non fosse stato per qualche passeggero che aspettava il volo in compagnia delle proprie valigie, si sarebbe potuto scambiare per un accogliente centro commerciale. Alcuni cercavano di ammazzare l’attesa bevendo un caffè al bar, altri sbirciando distrattamente la vetrina della libreria. Qualcuno si era perfino addormentato sulle poltroncine di fronte al distributore di pop corn.
Miranda, superate le porte automatiche, avvertì subito un tepore confortante.
Un bimbetto le tagliò la strada urlando, inseguito da una madre infuriata che parlava una lingua sconosciuta. Un paio di militari sfrecciarono accanto a lei, impassibili nella loro divisa, mentre due ragazze molto alternative trascinavano una via di mezzo fra un trolley e una pilotina.
Miranda cercò con lo sguardo i pannelli luminosi con le scritte che segnalavano le partenze e gli arrivi ma non riuscì a trovare quello che cercava. Consultò l’orologio: non c’era nessun motivo di innervosirsi, dal momento che aveva tutto il tempo per compiere la sua missione.
Cercando di mantenere la calma, si avviò verso il box delle informazioni e bisbigliò qualcosa all’indirizzo della ragazza dietro il banco. Parlottarono per qualche secondo. Alla fine, Miranda sembrò soddisfatta e si diresse verso la seconda fila di passeggeri che aspettavano il cheek in. Per fortuna, non erano molti. Evidentemente era presto e quel volo non era affollato ...
“ Meglio così!” pensò Miranda accodandosi dietro ad un tizio elegante, con lo sguardo impenetrabile e una valigetta di pelle scura.
Con l’aria più indifferente possibile incominciò a scrutare ad una ad una le persone che la precedevano nella fila.
Davanti a quello che sembrava un uomo d’affari - ma poteva anche essere, indifferentemente, un pedofilo in trasferta o un epigono di James Bond in missione speciale – c’era una coppia anziana dall’aspetto alquanto dimesso. Lo sguardo di Miranda andò oltre. Ecco un ragazzo con un giornale tedesco in mano, una suora dall’espressione poco mistica e una ragazza con un ridicolo scialle in testa. No, non erano loro che cercava! Vuoi vedere che aveva sbagliato l’ora e il giorno?
Miranda si accorse di essere agitata dalle mani che non riusciva a tenere ferme oltre che dal caldo improvviso che le fece avvampare il viso. Guardò ancora oltre e distinse chiaramente una ragazza alta … e bruna. Accidenti, non poteva essere lei!
Ad un tratto, si sentì urtare da una gomitata sconosciuta. Si girò di scatto e si ritrovò faccia a faccia con una giovane donna, che si guardava intorno con un paio di occhi verdi e smarriti, scuotendo una gran massa di riccioli biondi che le ricadevano su uno scollo generoso.
Miranda esultò. Il cuore prese a batterle all’impazzata ma si ricompose subito. E la voce le uscì spontanea, prima ancora di formulare il pensiero: “Ljudmila ?“
La ragazza si girò immediatamente, fissandola stupita: “ Sono io … ma, scusi … lei chi è?”
L’accento era inequivocabile. Ora era veramente sicura che quella vichinga spaesata fosse la padrona delle curve che facevano concorrenza alla Faentina!
Allora Miranda si fece forza e assunse un’espressione cordiale. Quasi affettuosa. Addirittura materna: “ Cara, che piacere conoscerti … Non ti dispiace, vero, se ti do del tu? Potresti essere mia figlia … E che bella figlia! Sì, è vero, Gualtiero ha sempre avuto gusti raffinati, in fatto di donne. Anche la brunetta del mese scorso era piuttosto caruccia … Veniva da Santo Domingo. Invece quella con cui voleva fuggire per Natale mi pare che fosse tedesca … No, mi sbaglio, era slovena. Sì, slovena! Sai, lui dice sempre di essere cosmopolita. Così ogni volta vuole sperimentare una nazionalità diversa.”
La bionda la guardò sbigottita. Miranda notò con soddisfazione che il labbro inferiore incominciava a tremarle vistosamente. Ad un tratto le cadde anche il voluminoso beauty case che teneva nella mano libera dalla valigia.
“Non capisco …” farfugliò Ljudmila .
“ E invece capisci perfettamente, bambina mia. Non lo sai che gli uomini sono tutti bugiardi? Dai retta a me, che ho una certa esperienza: non te la prendere. Anzi devi essere contenta perché con i soldi che Gualtiero mi ha pregato di consegnarti puoi comprarti un bel quartierino nella Repubblica Moldova e anche tanti bei vestitini … E poi, vuoi mettere? Ti sei liberata di lui che, detto fra noi, per te è un po’ troppo stagionato. E, anche da quel punto di vista lì, non è poi un granché. Fra noi, che lo conosciamo, possiamo anche dirlo: più che un motore elettrico è … un diesel ingrippato!”
Dagli occhi di Miranda, di solito così ascetici, trasudavano lampi di compiaciuta crudeltà.
Subito dopo, con uno scatto fulmineo, tirò fuori dalla borsa una busta voluminosa e un biglietto aereo, che mise fra le mani della bionda esterrefatta.
Ljudmila era visibilmente sotto shock ma non abbastanza per non rendersi conto di quello che le conveniva fare. Mormorò qualche parola spezzata nella sua lingua, mise la busta nel marsupio allacciato alla vita sopra l’ombelico scoperto , prese il biglietto e, calpestando i piedi al presunto uomo d’affari che la precedeva, si mise in fila.
Miranda tirò un sospiro di sollievo e fece dietro front.
Arrivata all’uscita si girò appena in tempo per notare la bionda che implorava con un timido sorriso la protezione del suo nuovo compagno di viaggio.
“ Speriamo che non sia un trafficante di ragazze perdute …” pensò preoccupata Miranda. Infine, afferrato il rosario che teneva nella tasca della pelliccia, uscì dall’aeroporto, respirando a pieni polmoni l’aria fresca che veniva dal mare.


“Avete saputo della fuga del Bianchi Bindi?” chiese Simeone entrando nella sede del “GFP”.
“ Che storia – osservò il Presidente, afferrando una carrozza Castano-Isabella appena deragliata – e dire che sembrava uno tutto “casa e stazione”!
“ Sono quelli più pericolosi – rincarò la dose il Paolatti – sembrano rassegnati alla monogamia e poi, all’improvviso, restano folgorati da un paio di tette e addio alla moglie, agli amici e alle littorine …”
Il Presidente , che non amava il gossip, azzardò una debole difesa d’ufficio: “ Non si può mai giudicare. Mi dispiace solo per la povera signora Miranda …”
“ A me no! – intervenne Aldemaro - Quella vecchia beghina è davvero insopportabile. Io Gualtiero lo capisco. E, detto fra noi, lo invidio anche. “
Il Presidente osservò, con accenti di vivo rimpianto: “Almeno avesse pensato a lasciare i modelli al “GFP”. Gualtiero possiede un vero e proprio patrimonio. Giovedì scorso siamo stati tutto il pomeriggio nella sua cantina, noi due soli, a far girare le sogliole nuove che ha comprato a Viareggio da “ Treni & Treni”. Una meraviglia! Io mi domando come possa aver rinunciato a tutto questo per una ragazzina che ha un terzo dei suoi anni …”
“ Io, invece, – lo rimbeccò nuovamente Aldemaro - se mi chiedessero di scambiare tutti i miei carri artigianali con una polacca di vent’anni, quasi, quasi ci farei un pensierino … “
Il Presidente si sentì in dovere di richiamare i presenti ad un linguaggio più decoroso:“ Per favore, ragazzi, non superiamo i limiti della decenza. Credo, anzi, che dobbiamo ricordare il nostro amico e socio di tanti momenti gloriosi, con il rispetto e l’amicizia che ha sempre meritato.”
“ Ehi, aspettiamo a fargli il necrologio. Non è mica morto! Anzi, secondo me, a quest’ora sta meglio di noi.” E qui il Paolatti ammiccò in maniera eloquente.


Miranda chiuse le persiane del salone. Ormai era buio pesto.
Alla radio avevano appena trasmesso “il sermone della sera” e si apprestavano a mandare in onda un radiodramma della serie “ Invito a cena con delitto”. Le sembrò opportuno spegnerla.
Mentre stava per salire in camera, un’idea le baluginò, improvvisa, nella mente e , invece di salire le scale, incominciò a scenderle, animata da un istinto irrefrenabile.
La porta della cantina emise un cigolio sinistro ma Miranda non ci fece caso. Accese la luce e si fermò davanti al mirabile plastico che il marito aveva montato nell’arco di quindici lunghi anni. Anni durante i quali aveva assemblato, segato, dipinto, incollato e digitalizzato, con l’entusiasmo di un adolescente soggiogato dal primo amore.
Ora era lei a scrutare il carro gru in miniatura, la piccola stazione, le mucche microscopiche che pascolavano sul pratino incollato di fresco e, soprattutto, le tre sogliole verdi, con il loro tettino grigio e lucente. Tre piccoli gioielli del fermodellismo. Tre fulgidi testimonianze di come l’uomo riesca talora ad interagire armonicamente con la macchina , compenetrandosi in essa attraverso un processo di goduriosa identificazione .
Miranda, dopo un breve attimo di esitazione, prese in mano il trasformatore e spense la luce. Quindi pigiò il pulsante e immediatamente le tre sogliole incominciarono a muoversi ordinatamente sui binari, simili a piccoli mostri degli abissi.
I loro occhietti maliziosi illuminati da una luce azzurrina e irreale baluginavano nel buio della cantina, emettendo bagliori seducenti e sinistri.
Miranda sorrise come ipnotizzata e il sorriso si tramutò gradualmente in una risata isterica che le scosse il petto con violenza. Ad un tratto, scossa da un tremore inarrestabile, prese il trasformatore che aveva appoggiato sul tavolo del plastico e lo scagliò con furore contro il mobile degli attrezzi.
Le sogliole si fermarono come per incanto e la cantina piombò nel buio.
Allora Miranda parve rendersi conto di quello che aveva fatto . Si chinò e incominciò a cercare al tasto il trasformatore caduto per terra.
Eccolo! Era ancora intero ... L’avrebbe riacceso e avrebbe contemplato di nuovo la magia delle sogliole che incedevano come regine in corteo, tronfie e orgogliose nella loro inimitabile eleganza.
Miranda pigiò di nuovo il pulsante ma un lampo improvviso la scosse da capo a piedi. Non fece nemmeno in tempo a gridare perché cadde esanime sul pavimento, proprio a due passi dal compressore.
Sui binari, le tre sogliole la contemplarono, immobili, con i loro occhietti di ghiaccio.

domenica 15 febbraio 2009

COMMENTO DI ELENA V

COMMENTO DI ELENA V A NEMESI E SOGLIOLE
......... il tuo racconto, stamani, mi ha sorpreso piacevolmente.
Ah, sì, gli attimi di perfidia sono sempre i più creativi, da Leopardi a Vignali ( ti autorizzo a citare questa frase in pubblico e nel futuro). I tuoi racconti sono tamente deliziosi che la profonda crudeltà che sta dietro alla vita quotidiana di tutti sparisce, diventa aerea, leggera, impalpabile e si dissolve in quella magistrale ironia della sorte. Ammettiamolo: i tuoi racconti svolgono una funzione catartica eccellente, al pari delle vecchie, tragiche, tragedie greche molto meno piacevoli e reali, e giungono diretti nell'animo e nella mente di chi, come me, li apprezza veramente tanto. Sono contenta che tu sia tornata a scrivere. Grazie di queste perle rare.

venerdì 13 febbraio 2009

E' STATO PRESENTATO ALLA BIBLIOTECA S.GIORGIO DI PISTOIA


Sabato 07/02/2009 e' stato presentato a Pistoia, alla Biblioteca S.Giorgio, il romanzo "Il dottor Bencistà e il segreto delle tre donne sole".

mercoledì 28 gennaio 2009

NUOVO RACCONTO

SCACCO MATTO ALLA FARFALLA

di Laura Vignali

 

            Non potrò mai dimenticare il cielo gonfio di nubi  scure e minacciose che mi accolse, appena sceso dal treno, alla stazione di Pistoia.

Eppure il viaggio era stato insolitamente rilassante. Almeno fino a Prato. 

Cullato dal  rumore monotono e rassicurante delle rotaie, me ne stavo  comodamente  seduto con la testa abbandonata sul palmo della mano destra e il prezioso libriccino aperto sulle ginocchia. 

Chi l’aveva detto che le ferrovie non erano più quelle di una volta? 

Di fronte a me nessuna signora invadente e ciarliera aveva disturbato la gradevole lettura del libro che avrei dovuto presentare il giorno dopo al convegno al quale ero stato invitato. Si trattava dell’edizione, curata da Giovanni Capicchi, delle lettere che il filantropo pistoiese Niccolò Puccini  aveva mandato, nel lontano 1826, alla madre e agli amici  durante il suo viaggio in Europa.

Fortunatamente, anche il signore annoiato e dallo sguardo perso nel vuoto che sedeva  di fronte a me, non aveva dato alcun segno di volersi impegnare nel solito dibattito sul tempo, sulla situazione dei trasporti in Italia e sulla maleducazione dei giovani utenti.

Così avevo potuto immergermi nella lettura di quelle lettere che meglio di ogni altra testimonianza mettevano in luce le passioni e gli interessi di quel pistoiese illustre, la cui personalità mi aveva a tal punto incuriosito da spingermi ad abbandonare, anche se  solo per un fine settimana, la mia pigra  poltrona di studioso corteggiato dai migliori salotti della capitale.

Mentre la pianura uniforme e grigia scorreva  oltre il finestrino, nel dormiveglia, mi risuonavano nella testa le parole del Puccini , che, scrivendo da  Rotterdam all’amico Alessandro Sozzifanti, parlava dei disagi ai quali era sottoposto il viaggiatore dei suoi tempi: “ … tu sei circondato da un popolo di piccoli e grandi insetti d’ogni generazione che è un vero soffrire ... ”

Ero consapevole di essere più fortunato di lui, nonostante il riscaldamento si fosse inesorabilmente guastato a metà viaggio e la tappezzeria delle poltrone risultasse in diversi punti lacera e costellata di macchie sospette.  Senza accorgermene, caddi in un sonno talmente profondo che, se il  mio vicino depresso non si fosse alzato bruscamente urtandomi con il suo ombrello, non mi sarei sicuramente accorto di essere  arrivato a Prato.

Scesi in fretta, abbottonandomi l’impermeabile, mentre una folata di vento gelido mi gettava per terra l’elegante basco che mi ero comprato per l’ occasione in uno dei negozi più esclusivi di via Veneto.

Ma fu quando salii sulla coincidenza per Pistoia, che avvertii  una sensazione talmente inquietante  che la mia prima istintiva  reazione fu quella di scendere immediatamente dal treno e di tornare da dove ero venuto.  Il cuore mi incominciò improvvisamente a battere come un orologio impazzito, le mani  mi tremavano e un sudore freddo e viscido mi bagnava la fronte e le ascelle.

Non riuscivo a capire quale fosse il motivo di quel repentino terrore ma cercai di razionalizzare il mio inspiegabile attacco di panico,dando la colpa a qualche problema digestivo o di pressione arteriosa.

In ogni modo riuscii a sedermi sullo strapuntino di uno dei corridoi, lontano dal frastuono dei pendolari.  Un finestrino aperto mi salvò da quella  situazione angosciosa: il respiro tornò gradualmente regolare, la sudorazione scomparve e il cuore riprese  a battere normalmente.

Forse avrei dovuto ascoltare la parte più sensitiva e primordiale di me. La stessa che mi  aveva lanciato l’avvertimento e che avrebbe voluto ostinatamente spingermi alla fuga.

Ma ormai era troppo tardi.

Come il treno si fermò alla stazione di Pistoia,  mi accorsi che era  già buio. Avevo appena fatto pochi passi in cerca di un taxi, quando  una pioggia insistente cominciò a insidiare la mia valigia di pelle acquistata da Harrods durante l’ultima trasferta londinese.

Un ferroviere gentile mi rassicurò spiegandomi che il mio albergo era proprio in centro e che avrei potuto arrivarci comodamente a piedi in pochi minuti.  Sarebbe stata una piacevole passeggiata se, nel frattempo, la pioggia non si fosse trasformata in un violento acquazzone. E soprattutto, se un furgone guidato da un energumeno dalle sembianze criminali non avesse impunemente tentato di investirmi sulle strisce pedonali, annegando i miei mocassini leggeri  con un’ondata di fetido fango.

Se avessi ascoltato il mio profetico inconscio,  avrei potuto scorgere un  funesto presagio anche in quel banale contrattempo.

 Invece , non seppi -  o non volli - seguire il mio istinto e la mia  maledetta razionalità di  matrice illuminista mi impedì di salvarmi da quella che sarebbe stata una delle più incredibili esperienze della mia piatta esistenza di letterato metodico e poco incline alle avventure extrasensoriali.           

La pioggia non accennava a diminuire. Anzi, appena arrivato alla rotonda vicino alle mura, incominciò anche a grandinare. Il mio elegante ombrello parigino, acquistato soltanto un mese prima in Avenue Montaigne, fu il primo a subire le ingiurie di  quella serata di dicembre che si preannunciava assai poco ospitale.

Fradicio da capo a piedi, riuscii finalmente  ad arrivare al Palazzo Puccini, dopo aver compiuto un lungo giro vizioso per il centro deserto immerso in un’atmosfera da diluvio universale.

Giunto in via del Can bianco, mi fece una certa impressione constatare che l’unica ”anima viva” presente  nella strada era l’autista di un  carro funebre parcheggiato di fronte alla sede della Misericordia. L’uomo se ne stava sulla soglia della Venerabile Arciconfraternita, in compagnia di un  sigaro. Non mi degnò di uno sguardo, nemmeno quando mi avvicinai, ormai inzuppato da capo a piedi, per chiedergli  dove si trovasse il mio albergo.

Così tirai a diritto, maledicendo fra me e me la mia autolesionistica disponibilità a partecipare  a tutte le trasferte letterarie che mi venivano proposte.

 Mi fermai all’angolo della strada, di fronte al portone inesorabilmente sbarrato  di un palazzo signorile che aveva tutta l’aria di essere quello che stavo cercando.  

Feci mentalmente appello alle mie ultime energie e tentai di  ricordare le istruzioni ricevute per telefono dal direttore della  prestigiosa “Residenza d’epoca Puccini “, situata proprio nel palazzo dove aveva vissuto il filantropo, mecenate e patriota pistoiese.

All’improvviso, da  una grondaia rotta si riversò uno scroscio d’acqua che per poco non mi investì. Fu allora che, volgendo lo sguardo verso l’alto, lessi la targa che stava in alto, sul muro d’angolo: vicolo del Malconsiglio.

Il nome non mi sembrò granché augurale ma, in compenso, mi  venne in mente che il mio residence era proprio in quel vicolo. E, più precisamente al numero 4.

Girai, dunque, nella stretta stradina che sembrava emergere dalle nebbie di un’antica  cronaca medievale. Dopo pochi passi, scorsi un grande cancello di ferro che immetteva in quello che doveva essere il famoso “summer garden”- in questo caso “winter garden”-  di cui si parlava sul sito del residence.

Di lì a poco, mi ritrovai  di fronte ad un elegante scalone , sobriamente addobbato con alcune stelle di Natale che salivano in fila indiana lungo le pareti dipinte di un tenue verde pastello. In alto,  al  primo piano, una  grande finestra mostrava uno spicchio di tetto già illuminato dalla luce di un lampione fioco.

Mi guardai intorno un po’ spaesato, alla ricerca di una reception . Fu in quel momento che mi sentii

chiamare alle spalle da una voce squillante e cordiale : “ Scommetto  che lei è il professor Contini , ho indovinato? Mi dispiace che nessuno abbia avuto l’accortezza di venirla a prendere alla stazione. Mi dispiace proprio .  Mi  permetta di aiutarla. Mi dia la valigia … Già, ma forse, lei non mi conosce. Permette? Andrea Lami, scultore. E questa è mia moglie Anna.”

            L’uomo mi prese la mano e me la strinse con un calore che mi risollevò lo spirito ma   mise in serio pericolo un paio delle mie falangi. Aveva l’aspetto simpatico e anche la moglie mi risultò piuttosto gradevole. Sarà stato per il sorriso  spontaneo che le spuntava  sul viso incappucciato da un piumino verde brillante . O forse perché lessi nel suo sguardo una certa pietà per la mia condizione di viaggiatore fradicio e disorientato.

            Mentre salivamo al piano superiore, incominciai a sentirmi un po’più a mio agio. Andrea Lami era un ottimo padrone di casa. Mi raccontò in due minuti la storia del restauro, mostrandomi contemporaneamente tutti  i particolari architettonici del palazzo.

Devo dire che, al posto dell’inquietudine iniziale, mi sentii pervadere da una sensazione estremamente rassicurante: mi sembrava di essere a casa. Anche se, nonostante la mia condizione tutt’altro che indigente, una dimora come quella non me la sarei potuta davvero permettere.

            Giunti in cima allo scalone, ci venne incontro un signore dall’aspetto professionale, con un elegante foulard che colpì immediatamente la mia attenzione. Come quella dei Lami, anche la sua stretta di mano era abbastanza vigorosa: “ Benvenuto, professore. Sono Riccardo Benucci.  La stavo aspettando.  Veramente pensavo che sarebbe arrivato per l’ora di cena. Ma è meglio così  perché potrà riposare un po’ e togliersi di dosso gli abiti bagnati. Venga le mostro la sua suite …”

            Andrea Lami e sua moglie insistevano per accompagnarmi nella mia stanza. Ma  prima, sottraendomi alle cure del direttore, mi dirottarono in un saloncino accogliente sulla cui parete centrale erano esposte in bella mostra  tre  sculture del mio nuovo  estroverso amico.     

Se proprio devo essere sincero, a me sembravano più quadri che sculture. O forse erano ambedue le cose. Una di esse, in particolare, colpì la mia attenzione.

            Il loro autore non mi dette il tempo di esprimere un qualunque apprezzamento sulle sua geniali creazioni artistiche, perché, nonostante grondassi acqua da tutti i pori, mi bloccò di fronte al quadro e si slanciò in una dotta spiegazione che mi svelò in men che non si dica l’arcano significato della tripla fila di farfalle rosa che spiccavano nella pesante cornice di legno.

            Infine, saltando come una molla da una parte all’altra della saletta, mi chiese a bruciapelo: “Le piacciono le farfalle?”

            Naturalmente si guardò bene dall’attendere una mia risposta e riprese con aria didascalica: “Vede, caro professore, io considero queste farfalle dei veri e propri pittogrammi. E’ evidente che  rappresentano sia la rinascita che la fragilità della natura. Voglio dire che simboleggiano la precarietà dell’esistenza ma anche il caso …”

            A questo punto, il Lami, tutto infervorato nello sforzo di farmi comprendere la quintessenza del suo lavoro, aggiunse con una certa aria misteriosa: “Lo sa che anche in questo palazzo c’è una farfalla? Una strana farfalla che guida una biga trainata da un volatile che sembra una tortora. O, forse, si tratta di  un piccione …  E’ lo stemma del Puccini, il quale era  senza dubbio un uomo profondamente legato al suo tempo ma anche proteso verso il futuro.  Un sincero progressista .”

            “Scusa, Andrea, ma forse il professore ha bisogno di cambiarsi gli abiti. E magari anche di fare una doccia …”

In quel momento fui molto grato alla  signora Lami, che tentava di sottrarmi  con ferrea dolcezza alle spiegazioni del suo vulcanico consorte. Ma, mentre mi dirigevo verso il corridoio che portava alla mia camera, un signore dall’aria trafelata si precipitò nella saletta, chiedendo, con evidente preoccupazione, se qualcuno lo avesse cercato.

Il Dami non si lasciò sfuggire l’occasione di presentarmi al suo amico: “ Aspetti, professore … Questo è l’architetto Roberto Cappelletti, uno degli artisti più creativi e distratti della città. Peccato che arrivi sempre in ritardo agli appuntamenti !”

In quello stesso istante un tipo altissimo, con i baffi brizzolati e un piccolo zaino fra le mani fece capolino nella stanza. Naturalmente lo scultore mi presentò anche lui: “ E questo è lo storico che ha curato le ricerche sul Puccini e sul suo palazzo. Avrà senz’altro sentito parlare del professor Andrea Setticelli …”

Confesso che incominciavo a sentire dei fastidiosi brividi lungo la schiena. E anche un certo raschiorino alla trachea. Insomma, fremevo dall’impazienza di trovarmi finalmente solo e di sprofondare le mie umide e doloranti appendici in un paio di comode pantofole.

“Piacere, piacere … - borbottò il nuovo venuto – dileguandosi, per mia fortuna, nel corridoio.

Finalmente riuscii a congedarmi e a chiudere la porta alle mie spalle.

 La stanza era indubbiamente una vera “sciccheria”: i soffitti erano affrescati e i mobili ultra moderni. Sobri ed eleganti nella loro tinta pastello, si armonizzavano perfettamente con l’antica finestra che dava sui tetti del vicolo.

Ma, appena posata la valigia e appeso il  cappotto, la medesima sensazione di inquietudine che mi aveva colto nel pomeriggio, si insinuò di nuovo alla bocca del mio stomaco e per la seconda volta in quella lugubre giornata avvertii un irrefrenabile desiderio di fuga.

Con il senno di poi, avrei fatto meglio a riprendere la mia  valigia bagnata e a ritornarmene immediatamente  a casa, adducendo, come scusa, generiche e pretestuose questioni di famiglia.

Invece mi feci forza e rimasi.

Con il cuore in tumulto, aprii la valigia e sistemai i miei indumenti alle grucce dell’armadio. Nell’indossare il mio elegante pigiama di seta azzurra non potei  fare a meno di sorridere, notando delle farfalle rosa disegnate ai bordi delle maniche. “Guarda un po’… - osservai leggermente rincuorato dalla curiosa coincidenza  - sembra proprio che l’abbia comprato per l’occasione. Si accorda perfettamente sia al quadro del Lami che allo stemma del Puccini!”

Sbadigliando, mi distesi sul letto e socchiusi gli occhi.

Non so dire per quanto tempo  sia rimasto in quella specie di dormiveglia, durante il quale strane ombre visitarono la mia mente. Erano, per lo più, piccioni giganti che trascinavano treni pieni di farfalle rosa, che, a loro volta, tentavano, invano, di volare fuori dai finestrini  inesorabilmente chiusi. Mi sembrò anche di distinguere una grande piazza a forma di scacchiera sulla quale si muovevano strani alfieri ricoperti di  piume e improbabili cavalli con le ali.

Verso le otto, fui bruscamente strappato a quel torpore irreale da qualcuno che bussava garbatamente alla mia porta: “ Professore, è pronto per la cena?”

Riconobbi la voce calda e vellutata della signora Lami.

Riuscii malamente a balbettare: “Ah, sì, certo … la cena. Mi vesto e vengo.”

Ormai non potevo più sottrarmi agli obblighi sociali. Tanto più che dovevo ancora informarmi sulle modalità del mio intervento al convegno del giorno dopo.

Inoltre, uscire a prendere un po’ d’aria fresca mi avrebbe sicuramente fatto bene. Ma, soprattutto, mi avrebbe distolto la mente dai pensieri funesti  che mi turbavano ormai da diverse ore.

 A cena, oltre allo scultore e alla moglie, c’erano anche il professor Setticelli e l’architetto Cappelletti. Passammo una piacevole serata in un localino del centro, davanti a un vino forse un po’ troppo corposo e ad un fritto eccessivamente calorico.

Il  Lami e il Cappelletti si presero in giro per tutta la durata della cena, denigrando, per scherzo, l’uno le opere dell’altro, mentre il Setticelli cercava di riportare le loro schermaglie artistico – goliardiche sui binari di una dotta conversazione di storia locale. 

“Che bella idea questo convegno sul  Puccini! -  osservò quest’ultimo, addentando un crostino caldo ricoperto di lardo – mi auguro solo che i pistoiesi  partecipino numerosi. Ho invitato anche un gruppo di studenti dell’Istituto “Filippo Pacini”. Speriamo che si ricordino di venire … “

“E’ un’occasione unica per esporre le mie farfalle ad un pubblico più numeroso !“ esclamò il Lami, infilzando con la forchetta un pezzo di carciofo croccante.

“Già, speriamo che il buffet gentilmente offerto dagli “Istituti riuniti” serva a risvegliare gli interessi culturali dei nostri pigri  concittadini …” gli fece eco la moglie, animata da un moto improvviso di orgogliosa tenerezza al pensiero che il suo Andrea, per progettare statue e fontane, era dovuto emigrare nel contado.

“Eh sì, è proprio vero che nessuno è profeta in patria!” sospirò Anna. Ma si rincuorò subito all’idea che l’indomani una folla di visitatori avrebbe potuto finalmente ammirare le tre file di farfalle rosa sulla parete della saletta poligonale.

Nel tornare al “Residence Puccini”, attraversammo la piazza del Duomo deserta e avvolta in un’impalpabile nebbiolina, che aveva preso il posto della pioggia.  Il campanile si stagliava contro un cielo lattiginoso e  senza stelle e il bagliore fioco dell’illuminazione aveva qualcosa di irreale.

Fu mentre passavamo vicino al Palazzo dei Vescovi che mi parve di intravedere un’ombra seduta sulle scale del Palazzo di Giustizia. Un’ombra scura e curva che si alzò all’improvviso e si diresse a passi lenti verso il vicolo dietro il Battistero.

Mentre uscivamo dalla piazza mi venne fatto di osservarla con la coda dell’occhio,mentre scompariva inghiottita dalle tenebre. Di nuovo sentii il cuore che, inspiegabilmente, mi rimbalzava nel  petto e, contemporaneamente, avvertii la ormai nota sensazione di freddo, seguita dall’immancabile sudorazione.

Non so se gli altri notarono il mio silenzio e il pallore della mia faccia. Forse avranno pensato che fossi stanco. O , magari, annoiato dalle loro chiacchiere.

Arrivati davanti al portone del palazzo Puccini, ci salutammo cordialmente, dandoci appuntamento per il convegno della mattina dopo.

Rientrato nella mia stanza  , mi sciacquai il viso con l’acqua calda, indossai il mio pigiama con le farfalle e mi infilai fra le lenzuola che odoravano di nuovo e di erbe provenzali.

Mi dissi che quella notte avrei dormito sicuramente e, per non rischiare nuovi attacchi di panico notturno, mi cacciai ben 2,50 mg di Tavor sotto la lingua.

Infine, presi il libriccino del Capicchi che avevo posato sul comodino e mi misi a leggere …

La mattina dopo, la sveglia squillò alle sette in punto.  Ci vollero una doccia calda, un cappuccino e una sfogliatina di mela per rimettere in funzione le mie usurate funzioni cerebrali.

Alle otto , fresco come una rosa nel mio completo grigio con cravatta rigorosamente Regimental , mi aggiravo per la sala del convegno, ossequiato e corteggiato da un nugolo di notabili e studiosi del luogo.

Mentre intrattenevo due attempate ex belle signore spiegando loro la genesi del mio interesse per il loro concittadino, intravidi la signora Lami che  vagava, stranamente da sola,  scrutando i presenti con un lampo di preoccupazione nello sguardo.

Appena mi fui liberato dalle mie ammiratrici, le andai incontro, augurandole cordialmente una buona giornata.

“ Oh professore, giusto lei! Non ha mica visto Andrea? Stamani si è alzato prestissimo e se n’è andato bisbigliandomi qualcosa che non ho capito. Sa, io ho il sonno pesante e lì per lì ho creduto di sognare. Ma, quando mi sono svegliata, la sua parte di letto era vuota . Non capisco , mio marito non fa un passo senza di me. Non mi ha lasciato nemmeno un biglietto … “

Anna cercava di nascondere l’ansia ma si vedeva che il comportamento di Andrea la rendeva inquieta. Lo si capiva dagli sguardi che lanciava alla porta .

Cercai di rassicurarla con parole di circostanza: “ Non si preoccupi, avrà ricevuto una telefonata urgente  oppure si sarà improvvisamente ricordato di un appuntamento.” In realtà, l’appuntamento  ce l’aveva con me, alle sette e mezzo. Ma non si era presentato. E io non ci avevo fatto troppo  caso. Avevo pensato   che anche il Lami, come il suo amico-rivale Cappelletti, fosse uno che arrivava sempre in ritardo. Così mi ero avviato nella sala del convegno, dove mi aspettava già il professor Setticelli , pronto a fare gli onori di casa.

La saletta incominciava a riempirsi. Un gruppo di ragazzi, guidati da una professoressa occhialuta e severa, sedette in terza fila, parcheggiando gli zaini all’esterno delle poltroncine, in una posizione alquanto pericolosa per i passanti distratti. 

Più della metà dei posti era già occupata e, mentre il Setticelli, già assiso al tavolo con le autorità cittadine, guardava insistentemente l’orologio, notai la figura dinoccolata del Cappelletti , che si precipitava verso di lui, inciampando in maniera rocambolesca nel pesante zaino di uno degli studenti dell’ Istituto “Filippo Pacini”. L’architetto, con un’abile mossa, riuscì miracolosamente a mantenersi in equilibrio. Poi, si catapultò  verso il Setticelli e gli sussurrò qualcosa  all’orecchio.

A giudicare dalla faccia  del professore, la notizia non doveva essere per niente piacevole perché si alzò di scatto, borbottando qualche scusa e si diresse come un razzo verso l’uscita.

Mi sentii in dovere di seguirlo, anche perché non mi era sfuggita l’espressione spaventata della signora Dami che si era, a sua volta, precipitata dietro il Setticelli.

Quando entrammo nella saletta poligonale e ci trovammo di fronte la faccia desolata di Riccardo Benucci, comprendemmo subito che doveva essere successo qualcosa di grave. Infatti, non ci volle molto a capire che, se la parete centrale era vuota, voleva dire che qualcuno aveva  fatto sparire il quadro con le farfalle!

“ Ma dove diavolo si sarà cacciato Andrea? “si chiese il Cappelletti, in preda al panico.

“E’ da mezz’ora che lo chiamo ma il suo telefono squilla a vuoto” rispose terreo il Setticelli.

“Allora vuol dire che è sparito anche lui …” aggiunse con invidiabile logica il Benucci.

Anna taceva torcendosi le mani. Mi sentii in dovere di rassicurarla in qualche modo. Anche in maniera alquanto stupida: “ Vedrà che ha fatto tardi al bar. Si sa, gli artisti non guardano mai l’orologio. “

“Sì, e magari, già che c’era, si è portato dietro anche il quadro e gli ha offerto un caffè macchiato!” aggiunse il Setticelli , non senza una certa astiosa ironia, che – lo confesso – mi dette piuttosto noia. 

Nessuno di noi sembrava in grado di trovare una spiegazione a quella duplice e repentina scomparsa. Così, dopo una rapida consultazione, l’unica cosa da fare ci sembrò quella di dare inizio al convegno, facendo temporaneamente finta che non fosse successo niente.

 Frattanto il Benucci avrebbe provveduto ad avvertire il Prefetto, che era comodamente sprofondato in una delle poltrone riservate alle autorità .

Confesso che la scomparsa del Lami mi aveva messo addosso una discreta inquietudine. Non sono mai stato un tipo pessimista ma la faccenda non mi piaceva affatto. Mi dispiace ammetterlo : mi sfiorò per un attimo l’ingiusto sospetto   che lo scultore avesse fatto il colpaccio , facendo scomparire la sua opera , per non so quale misterioso ricatto o imbroglio. Ma erano solo farneticazioni senza alcun riscontro. La verità era che il Lami era sparito nel nulla. E le sue farfalle rosa, simbolo della precarietà della vita, erano misteriosamente volate via insieme a lui per chissà quale oscura destinazione.

 “ Mia cara Sig.ra Madre. Eccomi sull’ Oceano, nel porto di Portsmouth, uno dei primi di questa potentissima Inghilterra, ove è un forte naviglio di legni da guerra, infra i quali sta venerato come palladio di pubblica sicurezza, il massimo Vascello sul quale moriva Nelson vincendo a Trafalgar …” La voce del noto attore Necchi risuonava, calda e avvolgente, nella sala del convegno.

Non per mancare di rispetto alla buon anima di Nelson, ma , in quel momento, il mio pensiero era ben lontano dal suo Vascello e anche dalle argute osservazioni di  viaggio del nostro Niccolò.

“ Dove sarà finito Andrea Lami?” era il quesito angosciante che mi ero ripetuto per due ore, mentre recitavo la mia dotta lezione e ascoltavo, apparentemente compunto e interessato, gli altrettanto dotti interventi dei miei illustri colleghi.

  La folla era ormai sciamata fuori della stanza, invadendo il grande salone al piano terra, dove il Benucci aveva fatto imbandire un luculliano rinfresco . Né io né il Setticelli assaggiammo niente. Il Cappelletti si limitò a spellunzicare  qualche nocciolina , mentre la signora Lami ascoltava in silenzio il Prefetto, che le parlava lentamente mentre sorseggiava il suo prosecco.

Il Setticelli non faceva niente per nascondere la sua irritazione:“ Avete almeno avvertito la polizia?”

“ Certamente! – gli rispose il Cappelletti – Non lo vedi che è arrivato l’ispettore Valeriani?”

“ Allora siamo  a cavallo!” replicò con una smorfia amara il professore.

L’ispettore Valeriani evocava più l’immagine di un gourmet che quella di un investigatore: l’aria bonaria del buongustaio  era accentuata dal colore rubizzo delle guance, oltre che da una sana e innata cordialità che rendeva  difficile immaginarlo alle prese con delinquenti incalliti e senza scrupoli.

“ Quando vi siete accorti della sparizione del quadro?” chiese l’ispettore, tanto per darsi un contegno.

“Stamani, poco prima dell’inizio del convegno. Sono sicuro che ieri sera era al suo posto …” rispose perplesso il Benucci.

“La signora Lami sostiene che il marito si è alzato presto e se n’è andato senza darle spiegazioni “

“ Già il fatto che si sia alzato presto è sospetto. Di solito prima di mezzogiorno non si alza mai dal letto. Dice che, se non dorme, non gli viene l’ispirazione. “ osservò Anna.

“ Evidentemente qualcuno lo ha chiamato e gli ha dato un appuntamento …” ipotizzò il Cappelletti.

L’ispettore non rispose.  Si capiva che stava mentalmente mettendo in ordine gli indizi. Il suo sguardo perso nel vuoto esprimeva , comunque,  una seria perplessità, unita ad una evidente preoccupazione per la sorte di quello che da anni considerava un amico.

 Per tutta la giornata le ipotesi sulla sparizione del Lami e del suo quadro si intrecciarono con le nostre  paure più segrete e inconfessate.

Nonostante cercassi di convincermi che ci doveva essere una spiegazione razionale e che sicuramente tutto si sarebbe risolto in breve nella maniera più  ovvia , un’indicibile ansia  mi cresceva  dentro con l’avvicinarsi della sera.

Mi sentivo talmente depresso che pensai addirittura di tornarmene a casa con un treno notturno . Ma il pensiero della signora Lami  mi impedì di darmi vigliaccamente alla fuga.

Passai il  pomeriggio con il Setticelli e con il Cappelletti. Nessuno di noi osava parlare dell’accaduto e lunghi silenzi si alternavano ad osservazioni generiche sul tempo. Era come se ciascuno di noi avesse paura ad affrontare la realtà.  O forse era il timore inconscio di scoprire qualcosa che preferivamo rimanesse nascosto ?

Di comune accordo, decidemmo di andare a cena nello stesso locale della sera precedente. Quasi ad esorcizzare la  paura di sconvolgere la nostra esistenza  pacifica e priva di colpi di scena.

Ma il clima era completamente diverso. Il Setticelli si rassegnò al passato di verdura, io mi limitai ad un antipasto e il Cappelletti lasciò nel piatto quasi tutta la sua pappa con il pomodoro.

Nel tornare all’albergo, attraversammo la piazza del Duomo. Proprio come la sera precedente. Solo che stavolta l’aria era asciutta e fredda.

In alto, dietro la punta del campanile  si distinguevano nettamente  un paio di stelle.

I nostri passi  risuonarono sulle pietre, rompendo il silenzio della notte. Con un gesto istintivo, voltai lo sguardo verso il palazzo di giustizia e fu allora che … la vidi nuovo!

L’ombra scura e curva  era la stessa della sera precedente. Ne ero sicuro. Così come ero sicuro che stesse guardando proprio nella nostra direzione. Addirittura mi sembrò che facesse un cenno di saluto con la mano.

Nel breve spazio di qualche secondo, l’ombra scomparve nel buio del solito vicolo, dileguandosi  - o meglio, dissolvendosi -  fra le case sbarrate e immerse nel silenzio.

E ancora una volta il cuore incominciò a battermi all’impazzata, mentre un tremito incontrollabile si impadroniva delle mie gambe, contraendone i muscoli fino allo spasimo.

 

La notte stava scivolando lentamente fino quasi ad incontrare i primi chiarori dell’alba, quando un rumore improvviso mi destò di soprassalto. Anche quella sera avevo dovuto ricorrere all’ ansiolitico per addormentarmi e quel fragore violento mi risuonò nel cervello in maniera attutita.

 Aprii gli occhi e, fra il sonno e la veglia, distinsi confusamente il bagliore di un lampo che feriva i vetri dell’ampia finestra le cui imposte avevo dimenticato di chiudere.

Mi sentivo la bocca impastata e la gola secca. Cercai di afferrare la bottiglietta di minerale che avevo posato sul comodino, ma riuscii soltanto a far cadere per terra il mio prezioso Eberhard  da polso.

Fuori incominciava a piovere. Lo si capiva dal rumore insistente delle gocce sulle tegole sconnesse del tetto di fronte e dall’insolito chiarore che preludeva al temporale.

Sicuramente il rumore che avevo sentito era quello di un tuono . Infatti, dopo il lampo che aveva rischiarato la mia stanza, seguì subito dopo il rumore di un altro tuono, molto simile al primo .

Mi alzai, sollecitato da un non so quale istinto. Con i  movimenti di un automa, indossai la vestaglia che giaceva sulla poltroncina . Avevo freddo, anche perché, prima di coricarmi, avevo cercato a lungo e invano  il mio pigiama  di seta. Non riuscivo a capacitarmi dove potessi averlo messo. Alla fine mi ero infilato nel letto con la solo maglietta intima e i boxer.

Non pensai di accendere la luce. Con le imposte aperte e il lampione di fronte alla finestra, ci si vedeva benissimo. Per di più, i lampi, sempre più frequenti, rendevano l’atmosfera piuttosto irreale.

Mi avviai verso la porta e l’aprii senza esitare.

Il corridoio era buio e procedevo a tentoni. Le porte delle altre suite erano tutte chiuse.

Dopo pochi passi, mi ritrovai di fronte ad un’ampia sala dalla quale provenivano i bagliori del caminetto acceso. Conoscevo quella stanza accogliente con un divano comodissimo situato proprio di fronte al fuoco. Mi fermai sulla soglia.

Fu allora che distinsi chiaramente delle voci sommesse e una specie di ticchettio , come di  oggetti spostati con gesti sicuri e precisi.

Mi ritrassi sbirciando nella sala. Quella che vidi mi sembrò una scena onirica: due uomini se ne stavano comodamente seduti,  uno di fronte all’altro, giocando a scacchi sull’elegante tavolinetto di cristallo a lato del camino.

 Mi stropicciai gli occhi nella speranza di svegliarmi e mi accorsi che uno dei due indossava il mio pigiama di seta. Sì, proprio il pigiama con le farfalle, quello sparito inspiegabilmente la sera prima!

E il secondo individuo, sulla cui schiena ricurva giocavano le ombre proiettate dal fuoco del camino assomigliava straordinariamente all’ombra  notturna incrociata sulla piazza.

Una sensazione di gelo mi pervase i muscoli. Non riuscivo più a muovermi.

“ A lei la prossima mossa” – sussurrò, cortese, l’ombra, accarezzandosi con una mano il pizzetto e i baffi.

“ Mi coglie di sorpresa, caro signore. Non credevo che lei fosse così abile nel gioco degli scacchi …” replicò l’uomo in pigiama, grattandosi a sua volta la punta del naso.

“ Ella mi lusinga ma le assicuro che, nel mio lungo e travaglioso pellegrinare, ho incontrato giocatori ben più valorosi  e degni di me. “

“ Su non faccia il modesto e riconosca che sta per vincere la partita …”

L’ombra sorrise e mi parve ancora più curva: “ Come vuole lei , caro Andrea. Scacco al Re! O forse, dovrei dire … scacco alla Farfalla!”

L’altro giocatore scosse la testa in segno di resa. Infine gli tese la mano, sussurrandogli con aria  complice: “ Già, è proprio il caso di dirlo, messer Niccolò: Scacco alla Farfalla!”

L’ormai nota sensazione di panico mi avvolse completamente le membra, facendomi lievitare in una dimensione irreale.

Ma stavolta i battiti accelerati del cuore mi parvero sovrastati da altri battiti ben più inquietanti e lontani. Un nodo alla gola mi impedì di gridare.

A questo punto i ricordi si fanno confusi. Credo di essere tornato verso il corridoio. Senza voltarmi indietro. E di averlo percorso in uno stato di trance.

Se ci ripenso, mi riaffiora solo un’immagine: il bagliore sinistro di un lampo che guizzò improvviso oltre la grande finestra del corridoio.

L’eco della risata di Andrea Lami mi risuonò a lungo negli orecchi durante gli interminabili minuti che ci vollero per far ritorno nella mia camera.

Chiudendomi la porta dietro le spalle, continuavo a ripetermi che avevo solo sognato. Ma non ne ero per niente convinto.

La mattina dopo me ne andai, senza salutare nessuno, uscendo dalla porta posteriore.

Solo quando ebbi voltato l’angolo, tirai un sospiro di sollievo.

 Mi inseguirono, in lontananza  solo i rintocchi di una campana. Accelerai il passo, trascinando la valigia con la fretta di chi non ha nessuna intenzione di voltarsi indietro.