sabato 28 febbraio 2009

ULTIMA LETTERA

Eccoci qui. Tu ed io da soli. In attesa che passi questa lunga notte, rotta soltanto dal gorgogliare dell’ossigeno e dai rari passi di un’infermiera che si dilegua nel corridoio.
Guardo fuori dalla finestra . L’ospedale sembra un immenso alveare. Le camere sono come celle, rischiarate da una luce fioca , nelle quali qualcuno veglia, aspettando con rassegnata impazienza che spunti di nuovo il giorno.
Le lancette dell’orologio si muovono con una lentezza estenuante. E’ passata da poco la mezzanotte …
Se mi metto in ascolto, mi sembra persino di udire l’ansimare faticoso che proviene dalle finestre del padiglione accanto. E’ la voce sommessa di un dolore privato che, forse, vorrebbe essere condiviso.
Ogni volta che il babbo si muove, la flebo che gli strazia il dorso delle mani oscilla dolorosamente, come se volesse staccarsi da sola. Come se avesse pietà di quella carne straziata.
Il mio sguardo vaga per la stanza, soffermandosi sul raggio di luce che filtra dal corridoio e va ad illuminare la striscia di linoleum verdastro del pavimento.

Babbo, cerca di dormire. Ti prego, non ti muovere, altrimenti il filo si stacca. Lo so che mille pensieri ti si affollano nella mente. Una mente stanca e affannata, nella quale le immagini del passato e del presente si sovrappongono in maniera illogica e confusa. Stai tranquillo. Ora ti bagno le labbra con questa specie di spugna. Lo so che non ti piace ma ti aiuta a combattere l’arsura che ti consuma, senza pietà, la lingua e le labbra screpolate. Hai ragione a respingerla. Fa effetto anche a me. Ci manca solo l’aceto e sembra una scena da Calvario …
Non sopporto che tu rimanga sveglio. Vorrei vederti sempre addormentato. E finalmente sereno.

Nonostante i calmanti, è di nuovo sveglio. Se almeno fosse lucido, cercherei di recuperare in poche ore tutto quel tempo che ho perso in mezzo secolo di vita. Gli direi tutto quello che non gli ho mai detto. Per fatica, per pudore o, forse, semplicemente per noncuranza.

Vedi, ora che di tempo ne abbiamo poco, vorrei raccontarti tutto quello che non ti ho mai raccontato prima. Sì, perché io e te abbiamo parlato troppo poco. E ora mi trovo a tentare, invano, di riannodare un filo tenue, tenue che sta per strapparsi completamente.
Già, io e te abbiamo vissuto accanto per tanti anni ma i nostri mondi so no sempre stati estranei l’uno all’altro.
Ed era inevitabile che lo fossero. Che ne sapevi tu delle storie che leggevo da bambina, dei mondi che immaginavo, della musica che ascoltavo? Tu eri tutto preso dal lavoro.
Se, da bambino, invece di farti lavorare, ti avessero potuto mandare a scuola, sicuramente la tua vita sarebbe stata diversa. Chissà! Forse ti saresti risparmiato tanta fatica e tutti quei calli nelle mani. Ma a te è sempre piaciuto lavorare.
Da giovane, eri orgoglioso di sollevare le damigiane del vino. Da vecchio ti sei accontentato di trascinare, fischiando, il carretto carico di acqua minerale per le strade del centro.
Io, invece, ho studiato al liceo classico. Tu mi hai pagato i libri, i corsi d’Inglese, il teatro e, infine,anche l’università. E lo hai fatto senza chiedermi niente . Ma, soprattutto, senza mai farmi sentire in debito.
Te lo ricordi, babbo, quando, da bambina , la domenica mattina, mi portavi con te nei paesi vicini a vendere le bottiglie?
Era divertente, negli anni ’60, fermarsi con il furgoncino nella piazza e aspettare le massaie che uscivano di casa per comprare l’amaro, il vermouth e la sambuca.
Mi torna in mente soprattutto l’odore di arrosto che si diffondeva fra le case all’ora di pranzo. Era un odore che metteva addosso un’allegria semplice. Un’ allegria che in età adulta non ho più provato.
Sono immagini e sensazioni lontane ma intense, che mi tornano alla mente come per miracolo, proprio ora che la stanchezza e la nostalgia fanno a gara ad occuparmi i pensieri. Sembra quasi che queste lontane impressioni, ormai offuscate dal tempo, si siano messe d’accordo con questo fiume di ricordi per mettermi fretta. E per spingermi a sussurrarti quelle poche, semplici parole che non ti ho mai detto.
I minuti sembrano scorrere più lenti della goccia che scende dalla flebo, nel vano e impossibile tentativo di restituirti la vita che ti fugge dalle vene.
Vorrei chiudere gli occhi e assopirmi. Così la luce dell’alba vincerebbe in un baleno questa notte che non vuole passare.

Lo sguardo vola di nuovo oltre la finestra. Osservo i fari delle poche auto che sfrecciano lungo l’asfalto, fendendo con la loro luce abbagliante il buio del viale. Sotto di noi, nel parcheggio quasi deserto, qualche auto solitaria sembra vegliare un dolore segreto. Un dolore che si consuma qui dentro, ovattato dai passi felpati e dall’odore acre del disinfettante.

Per favore, cerca di dormire. Non ti preoccupare della bottega. Ci penserà Luciano a portare i bottiglioni di rosè al bar di via degli Orafi. Domani ci penserà lui. Lo so che l’ultimo dell’anno non hai fatto in tempo perché il bar ha chiuso prima. Non è colpa tua.
Cerca di chiudere gli occhi. E magari ripensa ai momenti di serenità. Così la notte passerà più in fretta.
Sono appena le due e un quarto …
Ora chiudo gli occhi anch’io. Cerca di ricordare insieme a me, mentre ti tengo la mano stretta nella mia.
E’ un gioco che funziona, babbo. Ascoltami …
Mi viene in mente una domenica mattina di un paio di anni fa, quando ce ne andammo a cercare i finocchi selvatici vicino a Torbecchia … Tu ed io insieme. Erano anni che non succedeva. Lo sai che mi sono divertita davvero? Mentre ti arrampicavi sui cigli come un ragazzino, io arrancavo dietro di te, tutta sudata, sotto il sole di maggio.
Avrei dovuto accompagnarti più spesso a cercare i funghi e l’insalata di campo. Invece non l’ho fatto ...
Te lo ricordi quando mi insegnavi a guidare per i tornanti polverosi di Pian del Pesco?
Intanto gli anni sono scappati via. Sei invecchiato, babbo, ma non ti è mai passata la voglia di salire per i crinali scoscesi delle montagne e di arrampicarti in mezzo ai faggi e ai castagni.
Hai fatto chilometri con il passo sicuro di chi conosce la selva,. passando in mezzo ai rovi e risalendo i torrenti. E sempre cercavi con lo sguardo i segni della fungata che faceva capolino, nascosta dalle foglie.

La luce che viene dal corridoio mi riporta alla realtà. Dalla camera accanto si sente un lamento monotono. Quasi una litania. Accosto la porta quel tanto che basta per non rimanere al buio.

Ecco, ora siamo soli. Io e te. Con i nostri ricordi. Con i nostri discorsi mai pronunciati e il nostro affetto inespresso.
Ma forse sono stata solo io a non saper trovare le parole. Proprio io che ho letto tanti libri …
Avrei potuto gratificarti di più, farti sentire ancora utile e importante.
Tu, invece, mi hai sempre saputo dire parole tenere , con la semplicità di chi parla un linguaggio antico, fatto di proverbi e di frasi quotidiane.
Coraggio, sono già le quattro e fra poco un filo di luce incomincerà a filtrare dai fori del rotolante …

Entra un’infermiera. Con i gesti sicuri di chi è abituato al dolore degli altri, sostituisce la bottiglia vuota della flebo con un’altra piena. Ricomincia lo stillicidio estenuante della goccia che cade … Gli rimbocca le lenzuola e gli sussurra qualche parola di incoraggiamento. Come si fa con i bambini. Capisco che la sua è una lotta pietosa destinata alla sconfitta. Non si può far ripartire un corpo straziato che non funziona più. Se ne va, silenziosa come era entrata, lasciandosi dietro il solito odore di ospedale.

Non ti scoprire. Lo so che non li vuoi più tutti quei fili. Ma tu non ci pensare. Presto andremo insieme a cercare l’insalata di campo. Le cicerbite, la valeriana, il radicchio, gli asparagi selvatici …
Ecco, non siamo più in questa camera d’ospedale. Lo vedi? Siamo nel bosco. Di nuovo, tu ed io da soli. E camminiamo insieme sul tappeto di foglie secche, mentre i rami ancora spogli disegnano un ricamo intricato contro il cielo.
Rallenta il passo, babbo. Non ce la faccio a starti dietro ….