mercoledì 28 gennaio 2009

NUOVO RACCONTO

SCACCO MATTO ALLA FARFALLA

di Laura Vignali

 

            Non potrò mai dimenticare il cielo gonfio di nubi  scure e minacciose che mi accolse, appena sceso dal treno, alla stazione di Pistoia.

Eppure il viaggio era stato insolitamente rilassante. Almeno fino a Prato. 

Cullato dal  rumore monotono e rassicurante delle rotaie, me ne stavo  comodamente  seduto con la testa abbandonata sul palmo della mano destra e il prezioso libriccino aperto sulle ginocchia. 

Chi l’aveva detto che le ferrovie non erano più quelle di una volta? 

Di fronte a me nessuna signora invadente e ciarliera aveva disturbato la gradevole lettura del libro che avrei dovuto presentare il giorno dopo al convegno al quale ero stato invitato. Si trattava dell’edizione, curata da Giovanni Capicchi, delle lettere che il filantropo pistoiese Niccolò Puccini  aveva mandato, nel lontano 1826, alla madre e agli amici  durante il suo viaggio in Europa.

Fortunatamente, anche il signore annoiato e dallo sguardo perso nel vuoto che sedeva  di fronte a me, non aveva dato alcun segno di volersi impegnare nel solito dibattito sul tempo, sulla situazione dei trasporti in Italia e sulla maleducazione dei giovani utenti.

Così avevo potuto immergermi nella lettura di quelle lettere che meglio di ogni altra testimonianza mettevano in luce le passioni e gli interessi di quel pistoiese illustre, la cui personalità mi aveva a tal punto incuriosito da spingermi ad abbandonare, anche se  solo per un fine settimana, la mia pigra  poltrona di studioso corteggiato dai migliori salotti della capitale.

Mentre la pianura uniforme e grigia scorreva  oltre il finestrino, nel dormiveglia, mi risuonavano nella testa le parole del Puccini , che, scrivendo da  Rotterdam all’amico Alessandro Sozzifanti, parlava dei disagi ai quali era sottoposto il viaggiatore dei suoi tempi: “ … tu sei circondato da un popolo di piccoli e grandi insetti d’ogni generazione che è un vero soffrire ... ”

Ero consapevole di essere più fortunato di lui, nonostante il riscaldamento si fosse inesorabilmente guastato a metà viaggio e la tappezzeria delle poltrone risultasse in diversi punti lacera e costellata di macchie sospette.  Senza accorgermene, caddi in un sonno talmente profondo che, se il  mio vicino depresso non si fosse alzato bruscamente urtandomi con il suo ombrello, non mi sarei sicuramente accorto di essere  arrivato a Prato.

Scesi in fretta, abbottonandomi l’impermeabile, mentre una folata di vento gelido mi gettava per terra l’elegante basco che mi ero comprato per l’ occasione in uno dei negozi più esclusivi di via Veneto.

Ma fu quando salii sulla coincidenza per Pistoia, che avvertii  una sensazione talmente inquietante  che la mia prima istintiva  reazione fu quella di scendere immediatamente dal treno e di tornare da dove ero venuto.  Il cuore mi incominciò improvvisamente a battere come un orologio impazzito, le mani  mi tremavano e un sudore freddo e viscido mi bagnava la fronte e le ascelle.

Non riuscivo a capire quale fosse il motivo di quel repentino terrore ma cercai di razionalizzare il mio inspiegabile attacco di panico,dando la colpa a qualche problema digestivo o di pressione arteriosa.

In ogni modo riuscii a sedermi sullo strapuntino di uno dei corridoi, lontano dal frastuono dei pendolari.  Un finestrino aperto mi salvò da quella  situazione angosciosa: il respiro tornò gradualmente regolare, la sudorazione scomparve e il cuore riprese  a battere normalmente.

Forse avrei dovuto ascoltare la parte più sensitiva e primordiale di me. La stessa che mi  aveva lanciato l’avvertimento e che avrebbe voluto ostinatamente spingermi alla fuga.

Ma ormai era troppo tardi.

Come il treno si fermò alla stazione di Pistoia,  mi accorsi che era  già buio. Avevo appena fatto pochi passi in cerca di un taxi, quando  una pioggia insistente cominciò a insidiare la mia valigia di pelle acquistata da Harrods durante l’ultima trasferta londinese.

Un ferroviere gentile mi rassicurò spiegandomi che il mio albergo era proprio in centro e che avrei potuto arrivarci comodamente a piedi in pochi minuti.  Sarebbe stata una piacevole passeggiata se, nel frattempo, la pioggia non si fosse trasformata in un violento acquazzone. E soprattutto, se un furgone guidato da un energumeno dalle sembianze criminali non avesse impunemente tentato di investirmi sulle strisce pedonali, annegando i miei mocassini leggeri  con un’ondata di fetido fango.

Se avessi ascoltato il mio profetico inconscio,  avrei potuto scorgere un  funesto presagio anche in quel banale contrattempo.

 Invece , non seppi -  o non volli - seguire il mio istinto e la mia  maledetta razionalità di  matrice illuminista mi impedì di salvarmi da quella che sarebbe stata una delle più incredibili esperienze della mia piatta esistenza di letterato metodico e poco incline alle avventure extrasensoriali.           

La pioggia non accennava a diminuire. Anzi, appena arrivato alla rotonda vicino alle mura, incominciò anche a grandinare. Il mio elegante ombrello parigino, acquistato soltanto un mese prima in Avenue Montaigne, fu il primo a subire le ingiurie di  quella serata di dicembre che si preannunciava assai poco ospitale.

Fradicio da capo a piedi, riuscii finalmente  ad arrivare al Palazzo Puccini, dopo aver compiuto un lungo giro vizioso per il centro deserto immerso in un’atmosfera da diluvio universale.

Giunto in via del Can bianco, mi fece una certa impressione constatare che l’unica ”anima viva” presente  nella strada era l’autista di un  carro funebre parcheggiato di fronte alla sede della Misericordia. L’uomo se ne stava sulla soglia della Venerabile Arciconfraternita, in compagnia di un  sigaro. Non mi degnò di uno sguardo, nemmeno quando mi avvicinai, ormai inzuppato da capo a piedi, per chiedergli  dove si trovasse il mio albergo.

Così tirai a diritto, maledicendo fra me e me la mia autolesionistica disponibilità a partecipare  a tutte le trasferte letterarie che mi venivano proposte.

 Mi fermai all’angolo della strada, di fronte al portone inesorabilmente sbarrato  di un palazzo signorile che aveva tutta l’aria di essere quello che stavo cercando.  

Feci mentalmente appello alle mie ultime energie e tentai di  ricordare le istruzioni ricevute per telefono dal direttore della  prestigiosa “Residenza d’epoca Puccini “, situata proprio nel palazzo dove aveva vissuto il filantropo, mecenate e patriota pistoiese.

All’improvviso, da  una grondaia rotta si riversò uno scroscio d’acqua che per poco non mi investì. Fu allora che, volgendo lo sguardo verso l’alto, lessi la targa che stava in alto, sul muro d’angolo: vicolo del Malconsiglio.

Il nome non mi sembrò granché augurale ma, in compenso, mi  venne in mente che il mio residence era proprio in quel vicolo. E, più precisamente al numero 4.

Girai, dunque, nella stretta stradina che sembrava emergere dalle nebbie di un’antica  cronaca medievale. Dopo pochi passi, scorsi un grande cancello di ferro che immetteva in quello che doveva essere il famoso “summer garden”- in questo caso “winter garden”-  di cui si parlava sul sito del residence.

Di lì a poco, mi ritrovai  di fronte ad un elegante scalone , sobriamente addobbato con alcune stelle di Natale che salivano in fila indiana lungo le pareti dipinte di un tenue verde pastello. In alto,  al  primo piano, una  grande finestra mostrava uno spicchio di tetto già illuminato dalla luce di un lampione fioco.

Mi guardai intorno un po’ spaesato, alla ricerca di una reception . Fu in quel momento che mi sentii

chiamare alle spalle da una voce squillante e cordiale : “ Scommetto  che lei è il professor Contini , ho indovinato? Mi dispiace che nessuno abbia avuto l’accortezza di venirla a prendere alla stazione. Mi dispiace proprio .  Mi  permetta di aiutarla. Mi dia la valigia … Già, ma forse, lei non mi conosce. Permette? Andrea Lami, scultore. E questa è mia moglie Anna.”

            L’uomo mi prese la mano e me la strinse con un calore che mi risollevò lo spirito ma   mise in serio pericolo un paio delle mie falangi. Aveva l’aspetto simpatico e anche la moglie mi risultò piuttosto gradevole. Sarà stato per il sorriso  spontaneo che le spuntava  sul viso incappucciato da un piumino verde brillante . O forse perché lessi nel suo sguardo una certa pietà per la mia condizione di viaggiatore fradicio e disorientato.

            Mentre salivamo al piano superiore, incominciai a sentirmi un po’più a mio agio. Andrea Lami era un ottimo padrone di casa. Mi raccontò in due minuti la storia del restauro, mostrandomi contemporaneamente tutti  i particolari architettonici del palazzo.

Devo dire che, al posto dell’inquietudine iniziale, mi sentii pervadere da una sensazione estremamente rassicurante: mi sembrava di essere a casa. Anche se, nonostante la mia condizione tutt’altro che indigente, una dimora come quella non me la sarei potuta davvero permettere.

            Giunti in cima allo scalone, ci venne incontro un signore dall’aspetto professionale, con un elegante foulard che colpì immediatamente la mia attenzione. Come quella dei Lami, anche la sua stretta di mano era abbastanza vigorosa: “ Benvenuto, professore. Sono Riccardo Benucci.  La stavo aspettando.  Veramente pensavo che sarebbe arrivato per l’ora di cena. Ma è meglio così  perché potrà riposare un po’ e togliersi di dosso gli abiti bagnati. Venga le mostro la sua suite …”

            Andrea Lami e sua moglie insistevano per accompagnarmi nella mia stanza. Ma  prima, sottraendomi alle cure del direttore, mi dirottarono in un saloncino accogliente sulla cui parete centrale erano esposte in bella mostra  tre  sculture del mio nuovo  estroverso amico.     

Se proprio devo essere sincero, a me sembravano più quadri che sculture. O forse erano ambedue le cose. Una di esse, in particolare, colpì la mia attenzione.

            Il loro autore non mi dette il tempo di esprimere un qualunque apprezzamento sulle sua geniali creazioni artistiche, perché, nonostante grondassi acqua da tutti i pori, mi bloccò di fronte al quadro e si slanciò in una dotta spiegazione che mi svelò in men che non si dica l’arcano significato della tripla fila di farfalle rosa che spiccavano nella pesante cornice di legno.

            Infine, saltando come una molla da una parte all’altra della saletta, mi chiese a bruciapelo: “Le piacciono le farfalle?”

            Naturalmente si guardò bene dall’attendere una mia risposta e riprese con aria didascalica: “Vede, caro professore, io considero queste farfalle dei veri e propri pittogrammi. E’ evidente che  rappresentano sia la rinascita che la fragilità della natura. Voglio dire che simboleggiano la precarietà dell’esistenza ma anche il caso …”

            A questo punto, il Lami, tutto infervorato nello sforzo di farmi comprendere la quintessenza del suo lavoro, aggiunse con una certa aria misteriosa: “Lo sa che anche in questo palazzo c’è una farfalla? Una strana farfalla che guida una biga trainata da un volatile che sembra una tortora. O, forse, si tratta di  un piccione …  E’ lo stemma del Puccini, il quale era  senza dubbio un uomo profondamente legato al suo tempo ma anche proteso verso il futuro.  Un sincero progressista .”

            “Scusa, Andrea, ma forse il professore ha bisogno di cambiarsi gli abiti. E magari anche di fare una doccia …”

In quel momento fui molto grato alla  signora Lami, che tentava di sottrarmi  con ferrea dolcezza alle spiegazioni del suo vulcanico consorte. Ma, mentre mi dirigevo verso il corridoio che portava alla mia camera, un signore dall’aria trafelata si precipitò nella saletta, chiedendo, con evidente preoccupazione, se qualcuno lo avesse cercato.

Il Dami non si lasciò sfuggire l’occasione di presentarmi al suo amico: “ Aspetti, professore … Questo è l’architetto Roberto Cappelletti, uno degli artisti più creativi e distratti della città. Peccato che arrivi sempre in ritardo agli appuntamenti !”

In quello stesso istante un tipo altissimo, con i baffi brizzolati e un piccolo zaino fra le mani fece capolino nella stanza. Naturalmente lo scultore mi presentò anche lui: “ E questo è lo storico che ha curato le ricerche sul Puccini e sul suo palazzo. Avrà senz’altro sentito parlare del professor Andrea Setticelli …”

Confesso che incominciavo a sentire dei fastidiosi brividi lungo la schiena. E anche un certo raschiorino alla trachea. Insomma, fremevo dall’impazienza di trovarmi finalmente solo e di sprofondare le mie umide e doloranti appendici in un paio di comode pantofole.

“Piacere, piacere … - borbottò il nuovo venuto – dileguandosi, per mia fortuna, nel corridoio.

Finalmente riuscii a congedarmi e a chiudere la porta alle mie spalle.

 La stanza era indubbiamente una vera “sciccheria”: i soffitti erano affrescati e i mobili ultra moderni. Sobri ed eleganti nella loro tinta pastello, si armonizzavano perfettamente con l’antica finestra che dava sui tetti del vicolo.

Ma, appena posata la valigia e appeso il  cappotto, la medesima sensazione di inquietudine che mi aveva colto nel pomeriggio, si insinuò di nuovo alla bocca del mio stomaco e per la seconda volta in quella lugubre giornata avvertii un irrefrenabile desiderio di fuga.

Con il senno di poi, avrei fatto meglio a riprendere la mia  valigia bagnata e a ritornarmene immediatamente  a casa, adducendo, come scusa, generiche e pretestuose questioni di famiglia.

Invece mi feci forza e rimasi.

Con il cuore in tumulto, aprii la valigia e sistemai i miei indumenti alle grucce dell’armadio. Nell’indossare il mio elegante pigiama di seta azzurra non potei  fare a meno di sorridere, notando delle farfalle rosa disegnate ai bordi delle maniche. “Guarda un po’… - osservai leggermente rincuorato dalla curiosa coincidenza  - sembra proprio che l’abbia comprato per l’occasione. Si accorda perfettamente sia al quadro del Lami che allo stemma del Puccini!”

Sbadigliando, mi distesi sul letto e socchiusi gli occhi.

Non so dire per quanto tempo  sia rimasto in quella specie di dormiveglia, durante il quale strane ombre visitarono la mia mente. Erano, per lo più, piccioni giganti che trascinavano treni pieni di farfalle rosa, che, a loro volta, tentavano, invano, di volare fuori dai finestrini  inesorabilmente chiusi. Mi sembrò anche di distinguere una grande piazza a forma di scacchiera sulla quale si muovevano strani alfieri ricoperti di  piume e improbabili cavalli con le ali.

Verso le otto, fui bruscamente strappato a quel torpore irreale da qualcuno che bussava garbatamente alla mia porta: “ Professore, è pronto per la cena?”

Riconobbi la voce calda e vellutata della signora Lami.

Riuscii malamente a balbettare: “Ah, sì, certo … la cena. Mi vesto e vengo.”

Ormai non potevo più sottrarmi agli obblighi sociali. Tanto più che dovevo ancora informarmi sulle modalità del mio intervento al convegno del giorno dopo.

Inoltre, uscire a prendere un po’ d’aria fresca mi avrebbe sicuramente fatto bene. Ma, soprattutto, mi avrebbe distolto la mente dai pensieri funesti  che mi turbavano ormai da diverse ore.

 A cena, oltre allo scultore e alla moglie, c’erano anche il professor Setticelli e l’architetto Cappelletti. Passammo una piacevole serata in un localino del centro, davanti a un vino forse un po’ troppo corposo e ad un fritto eccessivamente calorico.

Il  Lami e il Cappelletti si presero in giro per tutta la durata della cena, denigrando, per scherzo, l’uno le opere dell’altro, mentre il Setticelli cercava di riportare le loro schermaglie artistico – goliardiche sui binari di una dotta conversazione di storia locale. 

“Che bella idea questo convegno sul  Puccini! -  osservò quest’ultimo, addentando un crostino caldo ricoperto di lardo – mi auguro solo che i pistoiesi  partecipino numerosi. Ho invitato anche un gruppo di studenti dell’Istituto “Filippo Pacini”. Speriamo che si ricordino di venire … “

“E’ un’occasione unica per esporre le mie farfalle ad un pubblico più numeroso !“ esclamò il Lami, infilzando con la forchetta un pezzo di carciofo croccante.

“Già, speriamo che il buffet gentilmente offerto dagli “Istituti riuniti” serva a risvegliare gli interessi culturali dei nostri pigri  concittadini …” gli fece eco la moglie, animata da un moto improvviso di orgogliosa tenerezza al pensiero che il suo Andrea, per progettare statue e fontane, era dovuto emigrare nel contado.

“Eh sì, è proprio vero che nessuno è profeta in patria!” sospirò Anna. Ma si rincuorò subito all’idea che l’indomani una folla di visitatori avrebbe potuto finalmente ammirare le tre file di farfalle rosa sulla parete della saletta poligonale.

Nel tornare al “Residence Puccini”, attraversammo la piazza del Duomo deserta e avvolta in un’impalpabile nebbiolina, che aveva preso il posto della pioggia.  Il campanile si stagliava contro un cielo lattiginoso e  senza stelle e il bagliore fioco dell’illuminazione aveva qualcosa di irreale.

Fu mentre passavamo vicino al Palazzo dei Vescovi che mi parve di intravedere un’ombra seduta sulle scale del Palazzo di Giustizia. Un’ombra scura e curva che si alzò all’improvviso e si diresse a passi lenti verso il vicolo dietro il Battistero.

Mentre uscivamo dalla piazza mi venne fatto di osservarla con la coda dell’occhio,mentre scompariva inghiottita dalle tenebre. Di nuovo sentii il cuore che, inspiegabilmente, mi rimbalzava nel  petto e, contemporaneamente, avvertii la ormai nota sensazione di freddo, seguita dall’immancabile sudorazione.

Non so se gli altri notarono il mio silenzio e il pallore della mia faccia. Forse avranno pensato che fossi stanco. O , magari, annoiato dalle loro chiacchiere.

Arrivati davanti al portone del palazzo Puccini, ci salutammo cordialmente, dandoci appuntamento per il convegno della mattina dopo.

Rientrato nella mia stanza  , mi sciacquai il viso con l’acqua calda, indossai il mio pigiama con le farfalle e mi infilai fra le lenzuola che odoravano di nuovo e di erbe provenzali.

Mi dissi che quella notte avrei dormito sicuramente e, per non rischiare nuovi attacchi di panico notturno, mi cacciai ben 2,50 mg di Tavor sotto la lingua.

Infine, presi il libriccino del Capicchi che avevo posato sul comodino e mi misi a leggere …

La mattina dopo, la sveglia squillò alle sette in punto.  Ci vollero una doccia calda, un cappuccino e una sfogliatina di mela per rimettere in funzione le mie usurate funzioni cerebrali.

Alle otto , fresco come una rosa nel mio completo grigio con cravatta rigorosamente Regimental , mi aggiravo per la sala del convegno, ossequiato e corteggiato da un nugolo di notabili e studiosi del luogo.

Mentre intrattenevo due attempate ex belle signore spiegando loro la genesi del mio interesse per il loro concittadino, intravidi la signora Lami che  vagava, stranamente da sola,  scrutando i presenti con un lampo di preoccupazione nello sguardo.

Appena mi fui liberato dalle mie ammiratrici, le andai incontro, augurandole cordialmente una buona giornata.

“ Oh professore, giusto lei! Non ha mica visto Andrea? Stamani si è alzato prestissimo e se n’è andato bisbigliandomi qualcosa che non ho capito. Sa, io ho il sonno pesante e lì per lì ho creduto di sognare. Ma, quando mi sono svegliata, la sua parte di letto era vuota . Non capisco , mio marito non fa un passo senza di me. Non mi ha lasciato nemmeno un biglietto … “

Anna cercava di nascondere l’ansia ma si vedeva che il comportamento di Andrea la rendeva inquieta. Lo si capiva dagli sguardi che lanciava alla porta .

Cercai di rassicurarla con parole di circostanza: “ Non si preoccupi, avrà ricevuto una telefonata urgente  oppure si sarà improvvisamente ricordato di un appuntamento.” In realtà, l’appuntamento  ce l’aveva con me, alle sette e mezzo. Ma non si era presentato. E io non ci avevo fatto troppo  caso. Avevo pensato   che anche il Lami, come il suo amico-rivale Cappelletti, fosse uno che arrivava sempre in ritardo. Così mi ero avviato nella sala del convegno, dove mi aspettava già il professor Setticelli , pronto a fare gli onori di casa.

La saletta incominciava a riempirsi. Un gruppo di ragazzi, guidati da una professoressa occhialuta e severa, sedette in terza fila, parcheggiando gli zaini all’esterno delle poltroncine, in una posizione alquanto pericolosa per i passanti distratti. 

Più della metà dei posti era già occupata e, mentre il Setticelli, già assiso al tavolo con le autorità cittadine, guardava insistentemente l’orologio, notai la figura dinoccolata del Cappelletti , che si precipitava verso di lui, inciampando in maniera rocambolesca nel pesante zaino di uno degli studenti dell’ Istituto “Filippo Pacini”. L’architetto, con un’abile mossa, riuscì miracolosamente a mantenersi in equilibrio. Poi, si catapultò  verso il Setticelli e gli sussurrò qualcosa  all’orecchio.

A giudicare dalla faccia  del professore, la notizia non doveva essere per niente piacevole perché si alzò di scatto, borbottando qualche scusa e si diresse come un razzo verso l’uscita.

Mi sentii in dovere di seguirlo, anche perché non mi era sfuggita l’espressione spaventata della signora Dami che si era, a sua volta, precipitata dietro il Setticelli.

Quando entrammo nella saletta poligonale e ci trovammo di fronte la faccia desolata di Riccardo Benucci, comprendemmo subito che doveva essere successo qualcosa di grave. Infatti, non ci volle molto a capire che, se la parete centrale era vuota, voleva dire che qualcuno aveva  fatto sparire il quadro con le farfalle!

“ Ma dove diavolo si sarà cacciato Andrea? “si chiese il Cappelletti, in preda al panico.

“E’ da mezz’ora che lo chiamo ma il suo telefono squilla a vuoto” rispose terreo il Setticelli.

“Allora vuol dire che è sparito anche lui …” aggiunse con invidiabile logica il Benucci.

Anna taceva torcendosi le mani. Mi sentii in dovere di rassicurarla in qualche modo. Anche in maniera alquanto stupida: “ Vedrà che ha fatto tardi al bar. Si sa, gli artisti non guardano mai l’orologio. “

“Sì, e magari, già che c’era, si è portato dietro anche il quadro e gli ha offerto un caffè macchiato!” aggiunse il Setticelli , non senza una certa astiosa ironia, che – lo confesso – mi dette piuttosto noia. 

Nessuno di noi sembrava in grado di trovare una spiegazione a quella duplice e repentina scomparsa. Così, dopo una rapida consultazione, l’unica cosa da fare ci sembrò quella di dare inizio al convegno, facendo temporaneamente finta che non fosse successo niente.

 Frattanto il Benucci avrebbe provveduto ad avvertire il Prefetto, che era comodamente sprofondato in una delle poltrone riservate alle autorità .

Confesso che la scomparsa del Lami mi aveva messo addosso una discreta inquietudine. Non sono mai stato un tipo pessimista ma la faccenda non mi piaceva affatto. Mi dispiace ammetterlo : mi sfiorò per un attimo l’ingiusto sospetto   che lo scultore avesse fatto il colpaccio , facendo scomparire la sua opera , per non so quale misterioso ricatto o imbroglio. Ma erano solo farneticazioni senza alcun riscontro. La verità era che il Lami era sparito nel nulla. E le sue farfalle rosa, simbolo della precarietà della vita, erano misteriosamente volate via insieme a lui per chissà quale oscura destinazione.

 “ Mia cara Sig.ra Madre. Eccomi sull’ Oceano, nel porto di Portsmouth, uno dei primi di questa potentissima Inghilterra, ove è un forte naviglio di legni da guerra, infra i quali sta venerato come palladio di pubblica sicurezza, il massimo Vascello sul quale moriva Nelson vincendo a Trafalgar …” La voce del noto attore Necchi risuonava, calda e avvolgente, nella sala del convegno.

Non per mancare di rispetto alla buon anima di Nelson, ma , in quel momento, il mio pensiero era ben lontano dal suo Vascello e anche dalle argute osservazioni di  viaggio del nostro Niccolò.

“ Dove sarà finito Andrea Lami?” era il quesito angosciante che mi ero ripetuto per due ore, mentre recitavo la mia dotta lezione e ascoltavo, apparentemente compunto e interessato, gli altrettanto dotti interventi dei miei illustri colleghi.

  La folla era ormai sciamata fuori della stanza, invadendo il grande salone al piano terra, dove il Benucci aveva fatto imbandire un luculliano rinfresco . Né io né il Setticelli assaggiammo niente. Il Cappelletti si limitò a spellunzicare  qualche nocciolina , mentre la signora Lami ascoltava in silenzio il Prefetto, che le parlava lentamente mentre sorseggiava il suo prosecco.

Il Setticelli non faceva niente per nascondere la sua irritazione:“ Avete almeno avvertito la polizia?”

“ Certamente! – gli rispose il Cappelletti – Non lo vedi che è arrivato l’ispettore Valeriani?”

“ Allora siamo  a cavallo!” replicò con una smorfia amara il professore.

L’ispettore Valeriani evocava più l’immagine di un gourmet che quella di un investigatore: l’aria bonaria del buongustaio  era accentuata dal colore rubizzo delle guance, oltre che da una sana e innata cordialità che rendeva  difficile immaginarlo alle prese con delinquenti incalliti e senza scrupoli.

“ Quando vi siete accorti della sparizione del quadro?” chiese l’ispettore, tanto per darsi un contegno.

“Stamani, poco prima dell’inizio del convegno. Sono sicuro che ieri sera era al suo posto …” rispose perplesso il Benucci.

“La signora Lami sostiene che il marito si è alzato presto e se n’è andato senza darle spiegazioni “

“ Già il fatto che si sia alzato presto è sospetto. Di solito prima di mezzogiorno non si alza mai dal letto. Dice che, se non dorme, non gli viene l’ispirazione. “ osservò Anna.

“ Evidentemente qualcuno lo ha chiamato e gli ha dato un appuntamento …” ipotizzò il Cappelletti.

L’ispettore non rispose.  Si capiva che stava mentalmente mettendo in ordine gli indizi. Il suo sguardo perso nel vuoto esprimeva , comunque,  una seria perplessità, unita ad una evidente preoccupazione per la sorte di quello che da anni considerava un amico.

 Per tutta la giornata le ipotesi sulla sparizione del Lami e del suo quadro si intrecciarono con le nostre  paure più segrete e inconfessate.

Nonostante cercassi di convincermi che ci doveva essere una spiegazione razionale e che sicuramente tutto si sarebbe risolto in breve nella maniera più  ovvia , un’indicibile ansia  mi cresceva  dentro con l’avvicinarsi della sera.

Mi sentivo talmente depresso che pensai addirittura di tornarmene a casa con un treno notturno . Ma il pensiero della signora Lami  mi impedì di darmi vigliaccamente alla fuga.

Passai il  pomeriggio con il Setticelli e con il Cappelletti. Nessuno di noi osava parlare dell’accaduto e lunghi silenzi si alternavano ad osservazioni generiche sul tempo. Era come se ciascuno di noi avesse paura ad affrontare la realtà.  O forse era il timore inconscio di scoprire qualcosa che preferivamo rimanesse nascosto ?

Di comune accordo, decidemmo di andare a cena nello stesso locale della sera precedente. Quasi ad esorcizzare la  paura di sconvolgere la nostra esistenza  pacifica e priva di colpi di scena.

Ma il clima era completamente diverso. Il Setticelli si rassegnò al passato di verdura, io mi limitai ad un antipasto e il Cappelletti lasciò nel piatto quasi tutta la sua pappa con il pomodoro.

Nel tornare all’albergo, attraversammo la piazza del Duomo. Proprio come la sera precedente. Solo che stavolta l’aria era asciutta e fredda.

In alto, dietro la punta del campanile  si distinguevano nettamente  un paio di stelle.

I nostri passi  risuonarono sulle pietre, rompendo il silenzio della notte. Con un gesto istintivo, voltai lo sguardo verso il palazzo di giustizia e fu allora che … la vidi nuovo!

L’ombra scura e curva  era la stessa della sera precedente. Ne ero sicuro. Così come ero sicuro che stesse guardando proprio nella nostra direzione. Addirittura mi sembrò che facesse un cenno di saluto con la mano.

Nel breve spazio di qualche secondo, l’ombra scomparve nel buio del solito vicolo, dileguandosi  - o meglio, dissolvendosi -  fra le case sbarrate e immerse nel silenzio.

E ancora una volta il cuore incominciò a battermi all’impazzata, mentre un tremito incontrollabile si impadroniva delle mie gambe, contraendone i muscoli fino allo spasimo.

 

La notte stava scivolando lentamente fino quasi ad incontrare i primi chiarori dell’alba, quando un rumore improvviso mi destò di soprassalto. Anche quella sera avevo dovuto ricorrere all’ ansiolitico per addormentarmi e quel fragore violento mi risuonò nel cervello in maniera attutita.

 Aprii gli occhi e, fra il sonno e la veglia, distinsi confusamente il bagliore di un lampo che feriva i vetri dell’ampia finestra le cui imposte avevo dimenticato di chiudere.

Mi sentivo la bocca impastata e la gola secca. Cercai di afferrare la bottiglietta di minerale che avevo posato sul comodino, ma riuscii soltanto a far cadere per terra il mio prezioso Eberhard  da polso.

Fuori incominciava a piovere. Lo si capiva dal rumore insistente delle gocce sulle tegole sconnesse del tetto di fronte e dall’insolito chiarore che preludeva al temporale.

Sicuramente il rumore che avevo sentito era quello di un tuono . Infatti, dopo il lampo che aveva rischiarato la mia stanza, seguì subito dopo il rumore di un altro tuono, molto simile al primo .

Mi alzai, sollecitato da un non so quale istinto. Con i  movimenti di un automa, indossai la vestaglia che giaceva sulla poltroncina . Avevo freddo, anche perché, prima di coricarmi, avevo cercato a lungo e invano  il mio pigiama  di seta. Non riuscivo a capacitarmi dove potessi averlo messo. Alla fine mi ero infilato nel letto con la solo maglietta intima e i boxer.

Non pensai di accendere la luce. Con le imposte aperte e il lampione di fronte alla finestra, ci si vedeva benissimo. Per di più, i lampi, sempre più frequenti, rendevano l’atmosfera piuttosto irreale.

Mi avviai verso la porta e l’aprii senza esitare.

Il corridoio era buio e procedevo a tentoni. Le porte delle altre suite erano tutte chiuse.

Dopo pochi passi, mi ritrovai di fronte ad un’ampia sala dalla quale provenivano i bagliori del caminetto acceso. Conoscevo quella stanza accogliente con un divano comodissimo situato proprio di fronte al fuoco. Mi fermai sulla soglia.

Fu allora che distinsi chiaramente delle voci sommesse e una specie di ticchettio , come di  oggetti spostati con gesti sicuri e precisi.

Mi ritrassi sbirciando nella sala. Quella che vidi mi sembrò una scena onirica: due uomini se ne stavano comodamente seduti,  uno di fronte all’altro, giocando a scacchi sull’elegante tavolinetto di cristallo a lato del camino.

 Mi stropicciai gli occhi nella speranza di svegliarmi e mi accorsi che uno dei due indossava il mio pigiama di seta. Sì, proprio il pigiama con le farfalle, quello sparito inspiegabilmente la sera prima!

E il secondo individuo, sulla cui schiena ricurva giocavano le ombre proiettate dal fuoco del camino assomigliava straordinariamente all’ombra  notturna incrociata sulla piazza.

Una sensazione di gelo mi pervase i muscoli. Non riuscivo più a muovermi.

“ A lei la prossima mossa” – sussurrò, cortese, l’ombra, accarezzandosi con una mano il pizzetto e i baffi.

“ Mi coglie di sorpresa, caro signore. Non credevo che lei fosse così abile nel gioco degli scacchi …” replicò l’uomo in pigiama, grattandosi a sua volta la punta del naso.

“ Ella mi lusinga ma le assicuro che, nel mio lungo e travaglioso pellegrinare, ho incontrato giocatori ben più valorosi  e degni di me. “

“ Su non faccia il modesto e riconosca che sta per vincere la partita …”

L’ombra sorrise e mi parve ancora più curva: “ Come vuole lei , caro Andrea. Scacco al Re! O forse, dovrei dire … scacco alla Farfalla!”

L’altro giocatore scosse la testa in segno di resa. Infine gli tese la mano, sussurrandogli con aria  complice: “ Già, è proprio il caso di dirlo, messer Niccolò: Scacco alla Farfalla!”

L’ormai nota sensazione di panico mi avvolse completamente le membra, facendomi lievitare in una dimensione irreale.

Ma stavolta i battiti accelerati del cuore mi parvero sovrastati da altri battiti ben più inquietanti e lontani. Un nodo alla gola mi impedì di gridare.

A questo punto i ricordi si fanno confusi. Credo di essere tornato verso il corridoio. Senza voltarmi indietro. E di averlo percorso in uno stato di trance.

Se ci ripenso, mi riaffiora solo un’immagine: il bagliore sinistro di un lampo che guizzò improvviso oltre la grande finestra del corridoio.

L’eco della risata di Andrea Lami mi risuonò a lungo negli orecchi durante gli interminabili minuti che ci vollero per far ritorno nella mia camera.

Chiudendomi la porta dietro le spalle, continuavo a ripetermi che avevo solo sognato. Ma non ne ero per niente convinto.

La mattina dopo me ne andai, senza salutare nessuno, uscendo dalla porta posteriore.

Solo quando ebbi voltato l’angolo, tirai un sospiro di sollievo.

 Mi inseguirono, in lontananza  solo i rintocchi di una campana. Accelerai il passo, trascinando la valigia con la fretta di chi non ha nessuna intenzione di voltarsi indietro.