venerdì 21 gennaio 2011

Il cappotto del babbo

I
Una valigia coperta di polvere

Suono al cancello della villetta alle quattro di un assolato pomeriggio d’agosto.
Il giardino è immerso nel silenzio, rotto soltanto dal frinire di qualche cicala. Per un attimo, mi coglie l’atroce dubbio di aver sbagliato l’ora o, addirittura, il giorno dell’appuntamento. Mi giro verso la collina di Lucciano, costellata di cipressi e non posso fare a meno di pensare che non sembra nemmeno di essere a Quarrata. Potrei trovarmi – perché no? – nel quadro di qualche macchiaiolo minore. Un pittore capace di cogliere l’allegria pomeridiana dei casolari toscani. Quei casolari di pietra che sbucano in mezzo al manto argentato degli ulivi, solcato soltanto da qualche viottolo sassoso.
Alle mie spalle si estende il parco della Màgia, con la villa medicea nascosta nel verde, immersa nel silenzio, dietro una specie di limonaia. E’ uno scenario vivo, anche se sembra assopito sotto il sole abbacinante di agosto.
Finalmente si apre la porta. Silvana mi saluta, con una gentilezza pacata ma festosa. Allora capisco di essere attesa. Non ho sbagliato giorno.
Franca mi accoglie nell’ingresso, dietro la sorella. Mi dà la mano con una stretta cordiale. Senza ombra di formalismo.
Comprendo subito che la mia non sarà solo una visita di cortesia e che le sorelle Nannini non si limiteranno a mostrarmi la loro casa. In realtà, fin dai primi gesti, mi rendo conto, con una sorta di pudico timore, che sto per entrare in un luogo speciale, nel quale il passato rivive nel presente attraverso una sorta di comunione affettiva fra i vivi e coloro che non ci sono più.
Mi sorprendo a pensare che in quella villetta ordinata ed elegante, si respira proprio quella che il Foscolo chiamava “celeste corrispondenza di amorosi sensi”. Ma forse è solo una deformazione professionale da insegnante di lettere.
“Questa casa l’ha fatta costruire il babbo, con una cooperativa dell’ INA CASE. Volle tornare fra le colline dove era nato . Gli piaceva tanto coltivare il podere, andare a caccia, fare il vin santo …”
Silvana e Franca parlano a turno del babbo. Lo fanno in perfetta simbiosi, integrando i reciproci ricordi con una profonda empatia. La loro è una serenità che sorprende. Ma ancora di più sorprendono questa sintonia e questo accordo tacito nel rievocare la loro infanzia con discrezione ma anche con spontanea vivacità.
Franca e Silvana sono capaci di far rivivere i loro cari attraverso gli aneddoti ma, soprattutto, attraverso gli oggetti personali. Appena entrata, ho avvertito subito questa sottile complicità che accompagna garbatamente le parole e i gesti di queste “ due ragazze della prima metà del secolo scorso”, come esse stesse amano definirsi, non senza una punta di affettuosa ironia.
Confesso che me le immaginavo diverse le sorelle Nannini, influenzata sicuramente da consolidati stereotipi.
Invece, mi trovo davanti due signore colte e informate, che mi mostrano con orgoglio un esercito di libri perfettamente schierati nei numerosi scaffali. Ammiro, non senza una sincera invidia, i volumi ben ordinati e senza tracce di polvere. Mi stupisco della presenza di molti saggi e romanzi recenti accanto ai classici perfettamente conservati e ai vecchi volumi degli anni ’50 e ’60. Franca parla di alcuni autori italiani e stranieri e scopro che abbiamo in comune molti gusti letterari . Soprattutto, alcune antipatie.
Silvana, invece, richiama la mia attenzione sul pianoforte, per aggiungere subito dopo, con un velo di rimpianto: “E’ tanto che non lo suono. Avevo incominciato a sette anni . Finite le scuole medie, il babbo mi fece scegliere . Decisi di continuare lo studio della musica e di prepararmi per il Conservatorio. Allora eravamo a Genova. Purtroppo, quando tornammo a Quarrata, abbandonai il pianoforte e incominciai a lavorare. Fu in quel periodo che Franca lasciò l’università.”
Ma, nonostante il sogno irrealizzato del Conservatorio, si capisce che Silvana , come del resto la sorella, è orgogliosa, a distanza di molti decenni, di non rinnegare nessuna delle sue scelte. Si ha l’impressione che le sorelle Nannini non vivano affatto di rimpianti . Anzi, la loro casa, pur conservando gelosamente le tracce di un tempo che non c’è più, emana una sensazione palpabile fatta di passioni e di interessi concreti. Si capisce subito che chi la abita non ha scelto di richiudersi a vagheggiare il passato ma ha consapevolmente deciso di partecipare con impegno ai drammi del presente.
Quando sono arrivata, nel salone a vetri c’era il televisore acceso . Franca stava guardando le Olimpiadi di Pechino . E, prima di spegnerlo ha fatto entusiasticamente il tifo per un atleta giamaicano sul punto di tagliare il traguardo. Mi è dispiaciuto interromperle lo spettacolo, anche perché non avrei mai immaginato che questa asciutta signora di settantatre anni, dall’aspetto austero e quasi monastico, fosse capace di appassionarsi a una gara sportiva alla stregua di un’adolescente.
Continuiamo il pellegrinaggio attraverso le stanze silenziose, mentre un gatto ci osserva imperturbabile dalla comoda postazione del divano del salone. Un altro ci incrocia nell’ingresso ma non sembra turbato dalla mia estranea presenza.
Osservando le molte immagini sacre e i libri di devozione sparsi per le stanze, si potrebbe pensare che queste due pie donne passino le loro giornate a recitare rosari. E invece scopro dai loro commenti, talvolta polemici, che la loro partecipazione alle problematiche religiose è vivace e sofferta.
“Come si può continuare a pensare che la guerra risolva i problemi?” si chiede indignata Silvana. Franca le fa eco con un duro giudizio sui moderni imperialismi che si nascondono dietro ipocrite bandiere di democrazia.
Mi sembra proprio che queste due sorelle, lungi dal richiamare alla mente le figure evangeliche di Marta e Maria , assomiglino piuttosto a un Erasmo da Rotterdam e a un Don Milani.
Fra i tanti dipinti e le numerose litografie appese alle pareti, mi colpisce un quadretto dal gusto vagamente naif. Raffigura una monachella con il suo largo copricapo bianco e una tunica celeste che guida sulle strisce pedonali una fila di bambine tutte vestite di rosa.
Non so perché ma mi pare che il pittore abbia espresso alla perfezione il clima di composta fiducia che si respira in queste stanze …
Mentre entriamo in camera, avverto la netta sensazione che la presenza del maresciallo Giuseppe Nannini, classe 1902, aleggi come un nume tutelare in ogni angolo della casa. E non solo nel salone a vetri , che lui stesso ha voluto così perché si affacciasse sulle sue colline.
La sua è una presenza che si avverte quando Franca mi mostra, con l’amorosa attenzione di una vestale, la foto che ritrae il giovane maresciallo dei carabinieri con la moglie, poco prima della guerra. Sembrano una coppia da cinematografo: lui, con l’aria vagamente baldanzosa, lei, graziosa, con l’onda liscia dei capelli che le ricade sulla fronte. E ancora si impone quando Silvana, sorridendo con una dolcezza quasi infantile, mi fa entrare nel salottino con il grande camino in pietra serena, emblema di una solidità morale propria di altri tempi.
“ Guarda – osserva con fierezza - questa è la sua sciabola d’ordinanza e questo è il suo fucile da caccia. Lo sai che mi portava con sé quando andava al cinghiale?” Silvana parla lentamente, con la voce velata di tenerezza.
Confesso che mi fa un po’ sorridere l’idea di questa signora mite e pacifista che si arma fino ai denti per seguire il babbo sui sentieri scoscesi dietro alle prede …
Ma Franca ha una gran voglia di incominciare il racconto. Non prima, però, di avermi mostrato i preziosi ricordi che tiene custoditi in soffitta.
Così usciamo in giardino e mentre saliamo su per le scale esterne, le vigne e gli ulivi tornano ad essere protagonisti della storia.
“Il babbo veniva da laggiù, dalle colline di Lucciano. La sua era una famiglia di contadini e, siccome c’era tanta miseria, i nonni erano emigrati fino in Brasile. Ma non avevano avuto fortuna e, dopo pochi anni erano tornati al paese. Il nonno Carlo era un uomo semplice ma non si stancava mai di imparare. Figurati che conosceva a memoria tanti versi della Divina Commedia e anche dell’ Orlando furioso.“
Non posso fare a meno di immaginare, come in una specie di quadro fiammingo, la figurina del maresciallo bambino, nelle lunghe serate delle veglie contadine, accucciato accanto al focolare. Chissà come sarà rimasto turbato dalla fine atroce del conte Ugolino! O come si sarà impietosito ascoltando il racconto della sventurata Pia de’Tolomei …
Trovo che abbia dei tratti epici la figura di questo nonno Carlo, che, mentre potava gli ulivi e dava il rame alle viti, si soffermava a declamare le terzine dantesche e le ottave dell’ Ariosto.
Sicuramente, nella fantasia infantile di Giuseppe, le gesta degli eroi evocati dal padre lo avranno invitato a partire con la mente verso altri mondi, dopo aver saltato la siepe di lauro che delimitava il podere di Lucciano.
Così, anche senza navigare in Internet, il penultimo dei sette figli di Carlo Nannini, era capace di immaginarsi un futuro affrancato dalla miseria.
Il filo dei miei pensieri viene bruscamente interrotto da Silvana, la quale mi mostra con evidente orgoglioso quello che rimane della cantina del babbo: una doppia fila di fiaschi scuri e polverosi, allineati come soldatini su una mensola piena di tarli addossata a una parete.
“ Un tempo c’erano anche i caratelli per il vin santo. Il babbo lo faceva da sé. Ma, da quando è morto, nessuno ha più aperto un fiasco .” mi spiega Silvana, visibilmente commossa.
“ Ora sarà diventato aceto …” aggiunge dispiaciuta la sorella.
Ma il ricordo più toccante sta chiuso in una vecchia valigia, tutta coperta di polvere, che Franca tira giù da uno scaffale con religiosa attenzione. Le due “ragazze del secolo scorso” l’aprono all’unisono, come se temessero che l’aria stessa potesse dissolvere quell’oggetto così prezioso.
Sono incuriosita, anche se so già di che cosa si tratta.
“Ecco, questo è il cappotto che portava il babbo in Albania, quando, dopo l’8 settembre del ’43, i soldati tedeschi lo disarmarono e lo portarono via insieme a tanti altri. Finirono tutti in Germania, nel Gemeinschafts lager di Brema. E con questo stesso cappotto tornò a casa dopo due anni di prigionia”. La voce di Silvana si incrina per l’emozione.
E’ un vecchio cappotto grigio - verde, consumato e sdrucito in più punti. Sulle spalle c’è una scritta fatta con la vernice rossa: IMI , che significa “internato militare italiano”. E’ un oggetto che parla da solo, senza bisogno di commenti. Chissà quante volte le sorelle Nannini lo avranno spiegato e ripiegato nel corso di questi lunghi anni …
Lo tocco anch’io, con un gesto timoroso e pieno di pudore, consapevole che quella stoffa che ha resistito a tanta disperazione, è più preziosa della reliquia di un santo medievale. E come una reliquia lo hanno conservato le figlie. Addirittura, con un gesto di infinita tenerezza, hanno cercato di difenderlo deponendo strategicamente in fondo alla valigia, alcune sottili foglietti di i antitarme. Come per preservare l’ultima tenace testimonianza di un’ inconcepibile tragedia individuale e collettiva.
Insieme al cappotto ci sono altri due indumenti, o meglio quello che resta di essi: un tascapane e una giacca striminzita, che gli americani consegnarono a Giuseppe, subito dopo la sua liberazione.
Franca ha le lacrime agli occhi. E non cerca nemmeno di nasconderle :“Guarda com’è piccola. Starebbe a un bambino … E dire che il babbo era un pezzo d’uomo ! Quando tornò era irriconoscibile e i capelli gli erano diventati tutti bianchi.”
Ecco, ora, finalmente, capisco il motivo per cui quest’uomo è ancora così presente nei pensieri delle figlie e fra le mura della sua casa. E perché la sua presenza, lungi dall’essere inquietante, è piuttosto quella, rassicurante e affettuosa, di una specie di Lare domestico. E al tempo stesso, sembra imporsi come un testimone che non vuole in nessun modo essere dimenticato, affinché la sua storia serva a dar voce anche a quei tanti che non sono più tornati.

Nessun commento: