venerdì 21 gennaio 2011

ANTOLOGIA " VICINI DA MORIRE"

Siepi alte fanno buon vicinato.
Laura Vignali
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I


La mia insignificante esistenza di insegnante precario sembrava ormai avviata sui binari della monotonia, quando, per un casuale gioco di graduatorie, il destino volle che dall’estremo nord fossi catapultato nella tranquilla provincia toscana. In realtà, devo dire che l’incarico annuale di Lettere al liceo classico di Pistoia non mi dispiacque affatto. Ero stanco di svegliarmi in mezzo alle montagne e di andare a letto con le galline, senza la possibilità di frequentare qualche cinema d’essai, un teatro, o anche la sala da biliardo in un bar che non chiudesse alle nove di sera. L’unico dispiacere era la separazione, speravo momentanea, dalla mia collega di educazione fisica Antonella De Rosa, anche lei confinata al liceo classico di Sondrio, dove l’avevo conosciuta e apprezzata per le sue straordinarie doti umane ma soprattutto per la sua avvenenza tipicamente mediterranea.
Ad essere sinceri, la nostra relazione era apparsa fin dall’inizio piuttosto problematica, dal momento che la mia aspirante fidanzata era già impegnata. E fin qui non ci sarebbe stato niente di male. Il problema era che il compagno di Antonella, tale Giammarco Rotella,titolare di una palestra di arti marziali a Secondigliano, oltre ad essere geloso, aveva tutta l’aria di essere anche piuttosto permaloso. Almeno a giudicare dalle denunce per rissa e lesioni personali che onoravano la sua fedina penale.
Insomma, avrete capito che vivo da solo non per scelta ma per necessità. Questo spiega il perché , appena arrivato a Pistoia, invece di prendere in affitto un monolocale da single, mi fossi lasciato affascinare dall’aria familiare e vagamente fuori moda di un terra-tetto vicino al centro storico. Si trattava di una di quelle villette , in stile liberty povero, con tanto di giardinetto con la palma coloniale e il terrazzino di pietra un po’ scalcinata.
In agenzia, quando avevo firmato il contratto di affitto dicendo che ero solo, l’impiegata mi aveva guardato con un certo stupore. Il titolare, invece, mi aveva ammiccato con sguardo complice, immaginando chissà quali festini e orge fra precari debosciati.
Così, in una tiepida mattina di settembre, struggendomi al pensiero di Antonella che correva in tuta per i sentieri della Valtellina, mi insediai nella villetta di viale De Sanctis, trascinando due valigie stracolme di grammatiche e di romanzi gialli , oltre ad una cesta nella quale stava mollemente adagiato il mio vecchio amico Catullo. Naturalmente avrete già capito che si trattava di un gatto. Nero , per la precisione. E non aveva affatto l’aspetto di un poeta. Semmai poteva essere comodamente scambiato per un vecchio pascià ottomano che, lungi dall’aver dimenticato le arti della guerra, si godeva in santa pace la meritata pensione.
Dopo aver infilato la chiave nella serratura, nello stesso istante in cui mi accingevo ad entrare ufficialmente nella mia nuova dimora, una voce un po’ rauca ma gentile proveniente dal villino accanto, mi fece sobbalzare: “Benvenuto, professore … Lei è un professore, vero?”
L’anziana signora che mi aveva rivolto la parola sembrava un personaggio di altri tempi. Di sicuro il suo abbigliamento austero e un po’ dimesso era molto in sintonia con il viale, nel quale aleggiava una certa aria di riservato perbenismo. Almeno a giudicare dalle persiane chiuse o accostate e dai gerani ben curati che sbucavano fra le inferriate delle finestre.
A quel punto non mi rimase altro che posare i bagagli e presentarmi alla mia nuova vicina, cercando istintivamente di conformarmi il più possibile al prototipo di rispettabile professore che piace tanto alle signore di una certa età. Non so francamente se ci riuscii o meno, dato che avevo la barba di tre giorni e la camicia con i polsini consumati.
Comunque, dopo questo primo frettoloso approccio, la signora Leda Pagnini – così si chiamava la mia vicina - , sembrò prendermi in simpatia, tanto che un pomeriggio, vedendomi tornare affranto da un interminabile collegio docenti, mi invitò inaspettatamente a prendere un caffè da lei.
L’ingresso del villino della Leda era permeato di inquietante familiarità. Sembrava uscito pari pari dai versi di un poeta crepuscolare: pareti verdoline con cornici di stucco sul soffitto, pesante lampadario in ferro battuto in puro stile sepolcrale inglese, poltroncina color rosso cardinale e cassettone con specchiera e gondola veneziana. Non mancavano neppure i ritratti degli antenati attaccati alle pareti, severi e composti nel loro abito della festa: arcigne matrone accanto a fanciulline ricciolute vestite di gale e a distinti signori con i baffi arricciati che guardavano impettiti verso un punto lontano .
“Mi scusi tanto, professore, se non l’ho invitata prima– esordì la mia vicina – ma qui da me non viene mai nessuno. Sa, praticamente, io sono vedova da sempre. Voglio dire che mio marito morì in guerra, pochi mesi dopo le nozze e io non me la sono mai sentita di rimpiazzarlo. Oddio, ad essere precisi, il povero Osvaldo risulta ufficialmente disperso, ma, visto che non è più tornato, tutti l’hanno dato per morto. Ed io per prima.”
La Leda sospirò mandando indietro un ciuffetto di capelli bianchi che portava tagliati a caschetto. Proprio come certe donne nelle cartoline del primo Novecento. Poi, sorridendo con un’espressione volutamente ingenua, soggiunse: “ Lei non crede che, se fosse stato vivo, sarebbe tornato?”
“Sicuramente. - replicai un po’ impacciato, mentre , seduto sul divano del salotto buono, rigiravo fra le mani una tazzina decorata con la torre di Pisa e il Colosseo, senza trovare il coraggio di ingurgitare la brodaglia scura nella quale galleggiavano i fondi di quello che sembrava un orzo dei tempi di guerra.
“Lo vuole un biscottino?” – mi chiese la Leda con impeccabile cortesia.
Non ebbi il coraggio di rifiutare le “marie”, che mi offrì dopo averle garbatamente adagiate sul centrino di un vassoio d’argento. A quel punto, nonostante il mio proverbiale cinismo, non potei fare a meno di farmi invadere da una vampata di tenerezza, nel veder riaffiorare inaspettatamente quell’antico biscotto della mia infanzia. Un biscotto in grado di evocare sensazioni ormai dimenticate. Insomma, mi sentivo un po’ come Proust quando ingurgitava una madeleine dopo l’altra e gli tornava in mente il tempo perduto . Ma forse il confronto suonava un po’ pretenzioso .
Il fatto era che, invece di starmene disteso sul letto di casa mia a fumare e a leggere Simenon, mi trovavo ostaggio di un’anziana vedova dall’aspetto educato e fuori moda, che, fra l’altro, mi incominciava ad incutere anche un inspiegabile disagio. E più ci pensavo e più la Leda assomigliava alla signorina Felicita di gozzaniana memoria.
Non per essere pedante - come mi fa sempre notare Antonella tutte le volte che faccio dotti riferimenti – ma il suo salottino era veramente popolato da una miriade di “buone cose di pessimo gusto”: dal servizio di tazze con i monumenti italiani trionfalmente esposto nella vetrinetta ( lo stesso di cui tenevo fra le mani un pregevole pezzo) , alla pastorella di gesso con tanto di bastone infiocchettato, dal quadretto con le conchiglie incastonate ( da lei stessa definito “prezioso ricordo” dell’unica vacanza a Rimini)alla Madonna di Lourdes di plastica,dono di un’amica devota. Ad essere pignoli, non mancava nemmeno il pappagallo imbalsamato.
“E’ la buonanima di Pippo – mi spiegò la Leda – c’ero tanto affezionata! Ora mi restano soltanto due “inseparabili”. Sa, quei pappagallini che non si lasciano mai … Si chiamano Bobby e Solo. Li vuole vedere?” . E, senza aspettare la risposta, mi fece strada verso il giardino sul retro. Quello che confinava con il mio e che si appoggiava direttamente alle antiche mura della città. Una vera e propria oasi di verde a due passi dal centro storico.
La gabbietta con i due pappagallini stava appesa per mezzo di un gancio ad un ulivo nodoso che doveva risalire ai primi anni del secolo scorso . Del resto, tutto il giardino era in tono con la casa: una panchina e un tavolo in ferro battuto arrugginito dal tempo, un paio di grossi limoni, diverse azalee e un’opulenta ortensia azzurrina ormai quasi sfiorita che conferiva al giardino un delicato alone di malinconia. Sul lato destro, come confine invalicabile, si ergeva una folta siepe di lauro. Una siepe silenziosa e guardinga, piantata chissà quanti anni prima con lo scopo di custodire i segreti di un’intimità piccolo borghese, riservata e gelosa. “Una siepe tipicamente pascoliana … ” stavo per constatare fra me e me.
Ma il pensiero di Antonella, che mi guardava ironica dalla sua cyclette, mi fece improvvisamente desistere dalla dotta citazione.
“Gli Inglesi dicono che le siepi alte fanno buon vicinato! – esclamò la padrona di casa intuendo forse i miei pensieri .”
“E’ vero. – replicai tanto per dire qualcosa.
Intanto la Leda aveva aperto l’usciolino della gabbia e, tirati fuori i pennuti , se li era appoggiati tutti e due su una spalla, rimproverandoli affettuosamente come avrebbe fatto con due nipotini dispettosi: “Gli parli, professore. Sono intelligenti e hanno un gran spirito di osservazione. Si figuri che conoscono le abitudini di tutto il vicinato. Stia attento che non svelino anche qualcuno dei suoi segreti … “ E rise con l’allegra impertinenza di una ragazza di vent’anni.
A questo punto mi sentii in dovere di ripartire equamente i complimenti fra Bobby e Solo ( che, ad essere sinceri, mi sembravano alquanto affranti) e mi chiesi anche come avesse fatto un tipo come la Leda a farsi venire in mente quei nomi . Avrei più facilmente immaginato : Oreste e Pilade, Gianni e Pinotto o, tutt’al più, Bibì e Bobò. Era evidente che la mia imprevedibile vicina era stata un’appassionata cultrice del Rock ‘n Roll.
Ormai stava scendendo la sera ma, nonostante tutto apparisse più indefinito, riuscii a intravedere un’ombra, là nel mio giardino, oltre la siepe di lauro. Era il vecchio Catullo che, accovacciato sulla tettoia dello sgabuzzino degli attrezzi, adocchiava con malcelata noncuranza la gabbietta vuota. Il suo era sicuramente lo stesso sguardo con cui si suppone che Maometto II osservasse le mura di Costantinopoli poco prima di conquistarla.
Erano già passate le sette e non vedevo l’ora di congedarmi ma, passando nella penombra dell’ingresso, lo sguardo mi si posò su una vecchia giacca, appesa all’attaccapanni in fondo alle scale. Era un indumento di foggia militare, consunto e sdrucito. Non so perché ma un leggero brivido mi percorse la schiena. Avvertii subito un impellente desiderio di andarmene. La Leda sembrò intuire la mia inquietudine e, accennando all’attaccapanni, mi chiese: “ Le sembra strano che conservi questa vecchia giacca di mio marito, vero? E’ una delle poche cose che mi rimangono di lui e preferisco tenerla all’aria, invece che chiuderla in un baule della soffitta. Sa, le tarme lavorano nel buio e mi dispiacerebbe che se la mangiassero. E poi così mi sembra che Osvaldo debba tornare da un momento all’altro. Sono anni che vado avanti con questa illusione. Le sembro matta, eh, professore?”
Finalmente, dopo avermi stretto vigorosamente la mano, la Leda chiuse la porta e mi augurò la buona notte. Ma, devo confessare che il sorriso indecifrabile che accompagnò il suo saluto mi lasciò di nuovo inspiegabilmente turbato.

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