giovedì 19 aprile 2012
Non è zafferano. Non è zafferano quello che tinge di giallo le ricette di Laura Vignali. E’ il delitto; anzi, una serie di delitti; sette, uno per giorno, un vero e proprio programma culinario, proposto per una settimana da brivido. Brivido di paura e brividi di piacere; sì, perché le storie di delitti, tutte rigorosamente perpetrate da assassini saputi di cucina, sono seguite da accurate istruzioni sul modo di preparare le pietanze micidiali, con l’aggiunta, però, di accorgimenti tali da evitare l’effetto mortale e definitivo che hanno sortito sui personaggi, anzi, sulle vittime dei racconti. Sono delitti assolutamente inaspettati, quasi banali; non c’è proprio mistero, perché la vita reale, quella quotidiana non è misteriosa, anzi è fin troppo ordinaria; eppure è proprio questa assoluta mancanza di eccezionalità che costituisce il movente del crimine. Ciò che fa di innocue persone degli assassini è la classica goccia che fa traboccare il vaso. Basta un gesto particolare, un’azione più stonata del solito, un ultimo, piccolo, insignificante sopruso, ed ecco che i protagonisti hanno come un’illuminazione, una presa di coscienza improvvisa, quasi pirandelliana, di una realtà che c’era ma era nascosta, che rendeva il mondo solo apparente e che, infine, disvela una triste realtà. E uomini e donne si ribellano, agiscono di conseguenza, nel peggiore dei modi, è inteso, ma chi dice che la natura umana è buona? Eppure questi personaggi non sono malvagi e questi delitti sembrano avere, almeno nella mente di chi li realizza, quasi un fin di bene, perché giungono a liberare oppressi da oppressori, oltre a conseguire un obiettivo decisamene catartico anche per noi lettori. Chi, almeno una volta, non avrebbe voluto presentare su un piattino, magari guarnito di tovagliolino con pizzo, come si conviene nelle famiglie perbene, la famosa torta alle mandorle (…amare) alla propria suocera? Scoprire che è un impulso plausibile e che, magari qualcuno lo ha messo in atto, idealmente anche per noi, ci salva dal delitto e dal male più di quanto si possa immaginare. Ma le creature di Laura Vignali non sono cattive: cani, maestre, monache sono umanissimi nei loro piccoli o grandi tormenti, sono proprio simpatici; sono persone (o cani) che potremmo incontrare in questa nostra piccola città di provincia, come potremmo incontrarli in molte altre città, anche non di provincia. Sono figure semplici che, con le loro (cattive) azioni culinarie, distorcono le ricette per ricomporre un equilibrio della vita che a loro appare precario, per tentare quello che nelle loro menti rappresenta la riparazione di torti subiti; per rendere pan per focaccia (il paragone alimentare vien da sé); il tutto in maniera e con mezzi propriamente discutibili. Essi tendono a fare giustizia, una giustizia, s’ intende, che non spetta a loro ma che, in fondo, a tutti noi lettori non dispiace. E ci sorprendiamo a provare una pericolosa vena di comprensione di certi loro sentimenti, ci sentiamo vicino a loro per quei piccoli rancori, per quei desideri di rivalsa, anche se, diciamolo per tranquillizzare noi stessi e il prossimo, non ci sogneremmo mai di agire come loro. Ci piacciono quei due bidelli, così diversi per età, cultura e modi di vita, accomunati nel fine assolutamente nobile di liberare gli alunni della scuola elementare da una maestra tirannica, insopportabile fin quasi alla crudeltà e umanamente molto più insensibile di loro; sentiamo fin nel profondo la pena intera di una vita sprecata di quella sartina di Gello che non ha mai “saputo conquistarsi la libertà di scegliere” e che, ad un certo punto, trova un modo del tutto inaudito di conquistarsela, la propria libertà. Sono sette storie semplici, quelle che ci narra Laura Vignali, ma questa semplicità, che è la cifra stilistica dell’autrice, applicata allo stile, al linguaggio, alla narrazione è del tutto ingannevole. Dietro ad essa c’è un’accurata analisi dei personaggi, la cui psiche è indagata in quei meccanismi che nessuno riesce a comprendere, ma che risultano evidenti nelle azioni; dietro a questa linearità c’è un’accurata ricerca linguistica che coniuga il bel parlato pistoiese con la correttezza della lingua italiana, senza scadere nel vernacolo e senza peccare di pittoresco. La lettura scorre, leggera e godibile, e passa dalla sorpresa dell’assassinio alla piacevolezza della ricetta; nello stile didascalico tipico della letteratura culinaria, con echi artusiani di notevole spicco, si trova, nel rispetto di certe consuetudini alimentari (venerdì pesce, anzi, coregone), l’amore per cucina toscana fatta di ingredienti semplici e genuini, la sapienza di cuoca di chi, come l’autrice (e posso produrre testimonianza in prima persona), ha cucinato fino alla sazietà (degli amici). E il tutto condito, come olio nòvo, da quel pizzico di arguzia, di voglia di ridere, dall’ammiccare di un dito che ammonisce: ”attenti a non sbagliare ricetta”. Perché, in fondo, il segreto della vita è proprio quello di non sbagliare ricetta. Elena Vannucchi
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