venerdì 21 gennaio 2011

FESTIVAL DEL GIALLO

29 GENNAIO 2011
BIBLIOTECA S.GIORGIO
IL GIALLO COMICO
IL SUCCESSO DELLA COMICITA' NEL GIALLO A CURA DI GRAZIANO BRASCHI
UMORISMO AL FEMMINILE A CURA DI LAURA VIGNALI
DETECTIVE DA BAR A CURA DI MARCO MALVALDI

UN RACCONTO INEDITO DEDICATO ALLA TUNISIA

A CATERINA E A HOUBEB

El awina hzina
(La susina triste)

I
Decisi di partire per la Tunisia la sera stessa in cui lessi il messaggio di Anna. Un messaggio chiarissimo e perentorio, che non mi lasciava alcuna speranza : “Questo posto non mi dispiace. Il lavoro è ai limiti della schiavitù ma si intravedono interessanti prospettive di carriera. Mi dispiace, Giorgio, ma è meglio che non mi cerchi più.”
Se io fossi stato un individuo ragionevole avrei dovuto realizzare subito che la mia storia con Anna era irrevocabilmente finita e che non esisteva più alcun margine di recupero. Invece l’idea di rassegnarmi non mi sfiorò nemmeno per un istante. Era chiaro che non avevo nessuna intenzione di sparire dalla sua vita. Almeno non senza una spiegazione convincente da parte sua.
Così, la mattina seguente, dopo una notte tormentata dal risentimento, dalla nostalgia e dalle zanzare, mi precipitai all’agenzia di viaggi dove lavorava una mia ex compagna di scuola e prenotai una stanza in un albergo nel centro di Monastir per una settimana ( 300 euro, volo compreso).
Fortunatamente, la mia amica ebbe il buon gusto di non chiedermi come mai a questo giro avessi deciso di andare in vacanza da solo. Ma dal suo atteggiamento un po’ imbarazzato compresi benissimo che aveva intuito la situazione e che solidarizzava in maniera discreta con la mia nuova condizione di single non rassegnato.

L’aereo della Tunisair decollò alle 21,35 in punto lasciando sotto di sé la pista rovente dell’aeroporto “Galilei”di Pisa.
Mentre il comandante dava il benvenuto ai passeggeri, un giovane steward mostrava l’uso dei giubbotti di salvataggio. Dal mio posto accanto al finestrino osservavo distrattamente le ultime luci del litorale toscano che si allontanavano confondendosi con le onde increspate del Tirreno.
Il mio umore non era certamente quello di chi si appresta ad assaporare una meritata vacanza ma mi sentii alquanto sollevato nel constatare che nessun passeggero occupava le altre due poltrone della mia fila.
Ormai l’ansia del viaggio aveva lasciato il posto ad una sensazione di calma quasi artificiale ed ero troppo concentrato nei miei pensieri per far caso ai miei compagni di viaggio. Ma, malgrado la mia scarsa socievolezza, non potevo fare a meno di ascoltare le loro conversazioni. Soprattutto i commenti della giovane coppia dietro di me che seguiva il percorso dell’aereo su uno degli schermi e i rimproveri poco autorevoli di un padre in tenuta da spiaggia che cercava invano di tenere a freno l’incontenibile esuberanza di due bambini insopportabili. Anche l’insistente chiacchiericcio di due attempate turiste che sedevano a fianco a me, sull’altro lato dell’aereo, incominciava a diventare francamente fastidioso.
“Senti un po’, Tilde – fece una delle due signore rivolta alla compagna di viaggio che le sedeva accanto – siamo sicuri che l’aereo faccia scalo a Djerba prima di atterrare a Monastir? E’ possibile che si vada in giù per poi ritornare in su? “
“ Che vuoi che ti dica, Carla? – rispose l’altra spazientita, mentre gesticolava con le dita inanellate le cui unghie mandavano bagliori di fiamma - Speravo che avessero sbagliato in agenzia, invece al cheek in mi hanno confermato che il volo dura due ore e mezzo e che staremo fermi a Djerba per mezz’ora. Un vero rompimento di scatole!” Poi, sospirando in maniera plateale, aggiunse rassegnata: “ Comunque è meglio andare a giro in qualsiasi posto piuttosto che rimanere al caldo a Empoli. E poi siamo in vacanze e non abbiamo nessuna fretta, no?”
“Forse era meglio scegliere un altro posto. Io in aria non ci sto per niente volentieri. – ribatté Carla stizzita – Comunque, ormai non c’è alternativa e bisogna rassegnarsi. Almeno speriamo che tu abbia scelto un albergo vicino al mare e non come l’anno scorso a Palma di Maiorca …”
“Tranquilla, Carlina, il posto è un incanto. Mio nipote mi ha fatto vedere le foto su Internet.”
L’altra sembrò rassicurarsi. S i abbandonò sullo schienale della poltrona, socchiudendo gli occhi con voluttà , dopo essersi passata un velo di rossetto sulle labbra.
Tilde, frattanto, aveva tirato fuori una rivista dalla borsa e cercava di concentrarsi sulla lettura. Ma , con la coda dell’occhio, teneva sotto controllo tutti i passeggeri che rientravano nel suo campo visivo. A partire dal signore brizzolato e dalla pelle scura seduto più avanti che, dopo essersi rivolto in arabo all’hostess, aveva ripreso a fissare le nubi fuori dal finestrino.
Ad un tratto un odore di cucina si diffuse fra le poltrone. Non appena uno degli steward incominciò a passare fra i passeggeri con il carrello della cena, gli sguardi di Tilde furono tutti per lui. La rivista fu subito rimessa in borsa.
“Ma che bel ragazzo che sei! – incominciò con la sua vocetta querula – Lo sai l’italiano?”
L’assistente di volo, evidentemente abituato a quel tipo di complimenti, le sorrise accondiscendente.
“Che occhi chiari che hai! – continuò lei – Non sembri nemmeno un arabo. Anzi, lo sai che assomigli a Kevin Costner?”
“ Sì, certo – replicò lui, porgendole un vassoio di tacchino e verdure, dal quale proveniva quell’odore assai poco invitante.
Il giovane rise di nuovo, mostrando una fila di denti bianchissimi. La hostess che lo aiutava , manteneva un contegno cortese ma riservato. Tilde, invece, non sembrava intenzionata a rinunciare a socializzare con l’equipaggio:”Io, se fossi in questa bella ragazza, un tipo come te non me lo farei davvero sfuggire.”
La hostess finse di non capire. Il giovane steward, invece, aveva già deciso di compiacere quella passeggera che apparteneva ad una tipologia a lui ben nota. In fondo, si limitava a svolgere il suo lavoro: “Niente da fare, signora. Io ho invitato lei a uscire con me ma lei … niente!”
“Gesummaria, non è possibile. Hai sentito Carla? Ah, se avessi trent’anni di meno ! A parte che potresti essere il mio figliolo ma questo non vuol dire niente. Anche perché l’amore ,si sa, non ha età. Scommetto che sono tante le signore che ti fanno la corte,eh? Sì, insomma voglio dire che ti fanno delle proposte ...” A questo punto il ragazzo – come da copione – passò alle confidenze, sostenuto da un altro collega che gli reggeva il gioco. Così tutti i passeggeri delle file centrali appresero della vantaggiosa offerta di matrimonio da parte di una matura viaggiatrice olandese, proprietaria di ben tre alberghi. Ma lui ci teneva a precisare che aveva eroicamente rifiutato l’offerta perché non era in vendita.
“Peccato.” – osservò Tilde con aria sconsolata.
Non so che cosa avrei dato per essere sordo. Tutte quelle chiacchiere mi stordivano il cervello. Ma soprattutto mi impedivano di mettere a punto un piano strategico per il giorno dopo. La voce dei miei vicini mi giungeva con un volume talmente alto che mi impediva anche di assopirmi. Chissà come faceva il signore brizzolato a tenere gli occhi chiusi fra il frastuono dei bambini che si flagellavano a vicenda con i loro conigli di pelouche e le avances delle due amiche di Empoli.
“Dove siete dirette?” chiese ancora il giovane steward , aggiustandosi la cintura per mostrare meglio il fisico atletico.
“Noi andiamo a Monastir. – rispose Tilde con fare seduttivo, tirandosi indietro un ciuffo di capelli giallo canarino- Ma non è mica la prima volta che veniamo in Tunisia. Siamo già state ad Hammamet e a Madhia, vero Carla? Io e la mia amica viaggiamo spesso. D’altra parte, ad una certa età, con un po’ di disponibilità economica, che cosa ci resta da fare di meglio? Non possiamo certo passare tutta l’estate al circolo ARCI a fumare e a giocare a burraco con i pensionati, no?”
Il carrello della cena si era frattanto allontanato. Finalmente le mie esuberanti vicine si chetarono. I bambini terribili si erano assopiti con i conigli spennati fra le braccia e anche la coppia dietro di me taceva.
Tirai un sospiro di sollievo: ora potevo lasciare che i miei pensieri fluissero liberamente. E senza fastidiose interferenze.

II

Arrivai a Monastir quasi a mezzanotte. Ma lì l’orologio segnava un’ora indietro. In mezzo alla fiumana chiassosa dei turisti, mi avviai da solo al controllo della dogana. Poco dopo riuscii a recuperare la mia valigia scura da commesso viaggiatore. Una valigia molto diversa dalle altre che scorrevano festose e variopinte sul nastro dei bagagli e che immaginavo stipate di costumi da bagno e di creme solari. Insomma, la mia era proprio una valigia triste. La degna compagna di viaggio di uno sfigato che si ostinava a correre dietro ad una donna che non lo voleva più.
Fuori dall’aeroporto faceva caldo ma era un caldo secco che non faceva sudare. Presi un taxi e chiesi all’autista di portarmi al Delphin Ribat, sulla Promenade de la Corniche.
Quando giungemmo a destinazione, ero stanco e frastornato ma non a tal punto da non rimanere affascinato dallo spettacolo del lungomare che si snodava parallelo ad una lunga fila di bianchi alberghi illuminati come alveari. Edifici opulenti, immersi fra le palme dei giardini con piscina, che promettevano ai turisti occidentali inusitati svaghi esotici.
Appena sceso dal taxi, mi ritrovai immerso nel bel mezzo di una folla colorata che faceva lo slalom nel traffico caotico candidamente ignaro di ogni codice stradale . Al di là della Promenade, il mare sembrava addormentato. Sullo sfondo una fila di bandiere rosse con la stella e la mezzaluna, agitate da un vento caldo che trasformava i ciuffi di palme in bizzarri ventagli.
Quando finalmente mi potei distendere sul letto della camera d’albergo, con la valigia per terra e una bottiglia di acqua minerale sul tappeto, tirai un sospiro di sollievo.
A quel punto mi sarei addormentato volentieri. Se soltanto l’agitazione non avesse avuto il sopravvento sulla stanchezza del viaggio.
Non potevo illudere me stesso e raccontarmi che ero venuto in quel posto per divertirmi come tutti quei turisti che a quell’ora si attardavano sul bordo della piscina a bere e a ridere. Li potevo sentire e vedere dalla porta finestra del balconcino, incorniciati in un delizioso quadretto da depliant turistico: le luci dei lampioni che si riflettevano sull’acqua turchese, le bandiere che sventolavano in lontananza e gli ombrelloni di paglia con i lettini deserti che disegnavano le loro ombre su un prato verdissimo, talmente perfetto da sembrare un tappeto sintetico.
Per fortuna, l’aria condizionata mi permetteva di respirare . Spensi la luce e chiusi la finestra del balcone.

Tutto era accaduto troppo in fretta. Fino a tre mesi prima, Anna parlava addirittura di trasferirsi a casa mia. Sembrava proprio che l’idea la entusiasmasse, tanto che aveva progettato di prendere una gatta al canile. Ed aveva precisato che sarebbe stata una gatta bianca e nera.
Poi, all’improvviso, il colpo di fulmine: la direzione della ditta dove lavorava le aveva proposto di andare in Tunisia per occuparsi del controllo della produzione. “La chiamano delocalizzazione – si premurò di spiegarmi – e consiste nell’impiantare una fabbrica in un paese in via di sviluppo, dove la manodopera costa poco e gli elevati guadagni consentono di affrontare meglio la concorrenza e di superare la crisi economica.”
E con questa spiegazione , di lì a pochi giorni, se ne era andata, mettendo la parola “fine” ai nostri progetti comuni. Ma soprattutto senza nemmeno concepire il dubbio che ci fossi rimasto male.
Il primo mese mi telefonava anche due volte al giorno . Quasi ogni sera si collegava con Skype e parlava con me fino a notte fonda, incurante del fatto che la mattina dopo avrebbe dovuto alzarsi all’alba per andare in fabbrica, laggiù nell’interno, ad una trentina di chilometri da Monastir. Una landa desolata – diceva lei - fra cammelli annoiati e nugoli di bambini scalzi che giocavano in mezzo alla polvere. Un posto dove gli operai arrivavano a dorso di asino o con una specie di taxi collettivo che assomigliava più ad un carro bestiame che a un mezzo pubblico.
Attraverso i suoi racconti mi scolpivo nella mente ogni istante della sua vita quotidiana, scrutando con affettuosa curiosità ogni particolare della sua casa lontana, che mi appariva familiare e vicina grazie allo schermo del computer.
Ma dopo qualche tempo, Anna incominciò a trovare mille scuse per non collegarsi: era troppo stanca, doveva riordinare la casa e cucinare per il giorno dopo, aveva fissato di andare al caffè con una collega o il collegamento era disturbato.
Se fossi stato più lucido e disincantato, avrei compreso subito che la mia relazione era quasi arrivata al capolinea. Anzi, era già definitivamente morta e sepolta. Invece mi ostinavo imperterrito a raccontarmi madornali bugie e a fingere di credere alle scuse inconsistenti di lei.
Soltanto quando era giunta la fatidica e mail avevo incominciato a realizzare. Ma, forse per amore, forse per orgoglio, non riuscivo in nessun modo a rielaborare quello che gli psicologi definiscono sentenziosamente “il lutto della separazione”. Esigevo assolutamente una spiegazione ed ero deciso ad estorcergliela in qualsiasi modo. Ero convinto che fosse un mio diritto.
Così dopo la mia prima notte africana, passata praticamente insonne a rimuginare le mie ragioni , mi alzai dal letto abbastanza stanco ma sufficientemente agguerrito per affrontare il fatidico incontro.
Nel salone dell’albergo, mentre facevo colazione da solo al mio tavolo da single, mi sentivo nelle medesime condizioni di spirito dello stratega che mette a punto gli ultimi dettagli del piano di battaglia. Mi rendevo conto che la mia era una quiete innaturale. La quiete che precede immancabilmente lo stress dello scontro. Insomma, tanto per rimanere nell’ambiente e con le dovute distinzioni, mi sentivo una specie di Scipione in procinto di affrontare il nemico cartaginese. Solo pochi mesi prima l’idea che un incontro con Anna potesse assomigliare ad una battaglia sarebbe stato davvero inconcepibile.
Uscendo dalla sala, feci molta attenzione a non incrociare Tilde e Carla. Già, perché le mie petulanti compagne di viaggio – lo avevo constatato con orrore la stessa sera dell’arrivo – alloggiavano anche loro al Delphin Ribat!


III

Con il pantalone e la camicia di lino bianco assomigliavo davvero ad uno di quei signori francesi dell’epoca coloniale. Ma la mia vanità passava in secondo piano perché si trattava di organizzare la giornata in maniera da non perdere tempo. La prima operazione da fare era noleggiare un’auto. Altrimenti sarebbe stato impossibile raggiungere la fabbrica dove lavorava Anna.
Avevo l’indirizzo ma nessuna idea precisa di dove si trovasse e di come arrivarci. Uno degli impiegati del bureau mi aveva tracciato una specie di mappa e mi aveva assicurato, in buon italiano , che in meno di un’ora sarei arrivato sul posto.
Così mi avviai sul lungomare assolato. Senza nessuna voglia di soffermarmi sulla spiaggia dove già a quell’ora diversi turisti si arrostivano al sole. Osservai per un attimo i ragazzini con i muscoli lucidi scolpiti dal sole che facevano a gara a tuffarsi dallo scoglio e alcune donne che si spingevano al largo nell’acqua verde smeraldo . Le turiste in costume , quelle del posto coperte da capo a piedi. Poco più in là una musica indiavolata accompagnava da un altoparlante un’improvvisata partita di calcio.
Camminavo sull’asfalto rovente, interrotto ogni tanto dai chioschi maleodoranti con i panini ripieni di misteriosi ingredienti e dai banchetti improvvisati sui quali si ergevano piramidi di mandorle sgusciate . Un bambino mi venne incontro con una cesta, offrendomi mazzetti di gelsomini infilati in corti stecchini essiccati.
In alto sulla collina, fra le palme e le bandiere, il sole sfavillava fra le mura possenti del Ribat, il monastero fortezza che domina il golfo. Presi la prima strada in salita, sulla sinistra, dove un cartello indicava in francese un’agenzia di noleggio auto . Passai oltre , imboccando un vialetto miracolosamente ombreggiato da due folte file di alberi, ai cui lati gruppetti di uomini oziavano fra i caffè e le botteghe di barbiere.
Ma evidentemente avevo sbagliato strada perché di auto a noleggio nemmeno l’ombra. In compenso finii fra i banchi del mercato coperto, in mezzo a cumuli di banane e pomodori, fra fasci di menta e di finocchio selvatico. Stordito dal caldo, dall’odore intenso delle spezie e dall’afrore dei corpi. Vagai per un po’fra la folla che si aggirava mercanteggiando, incurante delle mosche che si posavano ovunque. A partire dai pezzi di carne tagliati sui marmi di anguste botteghe.
Finalmente, dopo aver interpellato nel mio francese da turista un paio di passanti, trovai l’agenzia. Così noleggiai un’auto che, a prima vista, sembrava immatricolata agli albori della motorizzazione ma che faceva perfettamente al caso mio.


IV

Una volta uscito dalla città, la strada era larga e diritta. Ma decisamente un po’ troppo trafficata. E gli automobilisti assai poco disciplinati. Non dovevo fare altro che seguire le indicazioni della mappa, destreggiandomi fra relitti di camion che sferragliavano carichi di merci, motorini con non meno di quattro persone a bordo e carcasse di automobili in assetto di guerra. Ai lati della strada scorrevano immense distese di ulivi, alternate a costruzioni fatiscenti, ferrovie dell’epoca coloniale e file interminabili di fichi d’india e di oleandri. Ogni tanto il brivido dell’immissione in una rotonda mi faceva sudare freddo e una serie di segnali del tutto incomprensibili mi facevano dubitare seriamente di riuscire a raggiungere la meta. I taxi gialli erano i nemici più pericolosi: apparivano all’improvviso e sfrecciavano con straordinaria abilità a destra e a sinistra, dribblando miracolosamente auto e asini sulla loro traiettoria.
Dopo una ventina di chilometri percorsi sotto la canicola, e dopo aver finalmente superato un camion libico che trasportava pannolini per bambini (così almeno avevo capito dalla scritta in francese), mi ritrovai a fiancheggiare un grande lago, popolato da fenicotteri oziosi, incuranti degli aerei che decollavano in mezzo alla polvere librandosi rumorosamente sulla pista alle loro spalle.
Incominciavo a temere che non sarei mai arrivato. O forse lo speravo inconsciamente.
Comunque, non so come, ma ad un certo punto mi ritrovai al bivio dove intravidi miracolosamente il cartello che indicava il paese della fabbrica : Ben Hassem. Svoltai bruscamente, evitando per un pelo un toro che scalpitava legato ad un palo. Finalmente, riuscii miracolosamente a svoltare e a immettermi in una stradina sterrata e piena di sassi.
In fondo, mi aspettavano un gruppo di case malandate, con le porte di legno dipinte di celeste , un bambino che giocava scalzo in mezzo alla polvere e alle galline e una vecchia tutta intabarrata in un telo scuro. Mi fermai su un ciglio che traboccava di agavi e scesi dall’auto. Ma dove diavolo era questa fabbrica? Mi feci coraggio e cercai di chiederlo nel mio assurdo francese alla donna- pinguino, che, con mia grande sollievo, non solo capì alla prima e ma mi fece anche un cenno in direzione di due grandi capannoni che sbucavano laggiù in fondo, oltre le case.
Fu allora che mi resi conto che Anna doveva essere molto motivata per fare la gavetta in un ambiente così degradato. Proprio lei che odiava le periferie e non poteva fare a meno dei negozi del centro storico! Mi sembrava assurdo che avesse rinunciato ai suoi comodi nella speranza di diventare una manager di successo . Scacciai un dubbio che si era insinuato a tradimento: e se lo avesse fatto per allontanarsi da me? Preferii non pensare a questa possibilità.
Devo dire che prima ancora che dallo squallore fui colpito dal silenzio quasi irreale di quel posto. Dove dovevo bussare per chiedere notizie di Anna?
Avevo fatto appena qualche passo quando una figura femminile uscì all’improvviso da dietro un tugurio scalcinato. La vidi con la coda dell’occhio e la prima impressione che ebbi fu di stupore. Ma anche di inquietudine. Un’inquietudine inspiegabile che non mi impedì di avvicinarmi per osservarla meglio. Era una giovane donna vestita con un paio di pantaloni attillati e una casacca colorata che le arrivava ai ginocchi. Notai che aveva la pelle più scura rispetto alle altre donne. Forse non era tunisina ma di un paese più a sud. La osservai meglio. Aveva i capelli nascosti da un velo turchese , gli occhi grandi e scuri e le labbra ben disegnate. Era decisamente una bella ragazza.
Mentre la guardavo, cercando di non farmene accorgere, lei incominciò a camminare in su e in giù, davanti all’entrata del primo capannone. Come se stesse aspettando qualcuno. Io, per darmi un contegno, incominciai a fare altrettanto.
A ripensarci, dovevo essere abbastanza buffo. Passeggiavo in quella landa desolata come se fossi stato a Nizza, sulla Promenade des Anglais , tutto sudato nel mio completo di lino bianco, circondato dalle mosche e da una serie di bidoni di latta arrugginiti che qualcuno aveva schierato in bella mostra, come se fossero stati preziosi elementi di arredo.
Ad un tratto lei si fermò e alzò lo sguardo verso di me. I suoi occhi scuri mi osservavano con una familiarità che mi mise a disagio. Come se mi conoscesse. Addirittura mi parve di notare un sorriso quasi complice.
A quel punto, senza pensarci troppo mi avvicinai rivolgendole la parola in italiano: “Buonasera, non sa , per caso, a che ora finiscono di lavorare in questo posto?”.
Ad essere sinceri, non mi chiesi nemmeno perché le avessi istintivamente parlato nella mia lingua. Mi era sembrato naturale, ecco tutto. Allora non potevo saperne il motivo.
Lei non sembrò affatto meravigliata, tanto che mi rispose senza esitare. In italiano, naturalmente: “Hanno già chiuso, da più di un’ora. Ma tu aspetti qualcuno?” Aveva appena una leggera inflessione straniera. Sembrava divertirsi di fronte al mio stupore. Non aspettò nemmeno che le chiedessi come mai sapeva la mia lingua.
“Sei italiano, no? Si vede subito. Io ho lavorato tre anni in Italia. Abitavo a Rimini. Conosci Rimini? Piadine, ballo liscio …” E rise scoprendo una fila di denti bianchissimi come mandorle sgusciate.
Il ghiaccio era rotto. Evidentemente il destino si era impietosito e mi aveva mandato quella ragazza per non farmi perdere in quell’inferno di calore e di macerie.
“Sì, certo che la conosco. Ascolta, visto che sei qui, forse mi puoi aiutare. Io cerco una ragazza italiana che lavora in questa fabbrica …”
“Ah! – fece lei con il tono di chi sa già di chi si parla – Anche mia sorella lavora qui. “
“Allora forse conosce Anna …”
“Anna? Ah sì, quella ragazza italiana con i capelli corti, piuttosto carina!”
“Non mi dire che la conosci anche tu!”
“Certo, lavora nello stesso ufficio di mia sorella. Ma a quest’ora se ne sono già andati tutti. In estate fanno un orario ridotto.”
Il sollievo per aver rintracciato Anna lasciò il posto alla delusione per essere arrivato tardi: “Ma tu chi aspetti allora?”
“Il louage per tornare a Monastir.”
“Senti un po’ – azzardai un po’ imbarazzato - se non hai problemi, ti posso dare un passaggio io, con l’auto che ho preso a noleggio stamani ... Possiamo tornarcene insieme.”
Immaginavo che rifiutasse il mio invito. Invece accettò subito ed entrò nella macchina rovente. Perfettamente a suo agio. Alla faccia del riservato pudore delle donne musulmane.
Lungo la strada incominciammo a parlare come due vecchi amici. Senza alcun imbarazzo. Mi raccontò che si chiamava Noura e abitava nella medina di Monastir insieme a sua madre. Aveva aperto un negozio di parrucchiera ma aveva nostalgia dell’Italia, dove faceva la cameriera in un ristorante sul mare. Non le chiesi perché fosse tornata e per quale motivo aspettasse la sorella, pur sapendo che era già uscita.
Sarà stata la tensione del viaggio andato a vuoto, sarà stata la simpatia di Noura, il fatto sta che le raccontai la mia storia. Lei annuiva in silenzio. Tanto che mi pareva di conoscerla da sempre. Così non mi stupii più di tanto quando mi disse che conosceva Anna e che comprendeva il mio stato d’animo.
“Anna è una ragazza intelligente che vuole diventare importante nel suo lavoro.” fece Noura come se parlasse di un’amica dalla quale aveva raccolto certe confidenze.
Inutile dire che questo suo atteggiamento mi incoraggiava a farle domande su Anna, nell’ingenuo tentativo di avere qualche altra notizia su di lei. A dire la verità, la scena mi sembrava un tantino surreale: me ne stavo a parlare dei miei problemi sentimentali con una sconosciuta alla quale avevo casualmente offerto un passaggio. E lo facevo senza alcun ritegno. Come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Arrivati in città, Noura mi fece entrare in un dedalo di viuzze strette con le case scalcinate, in mezzo ad un’umanità molto diversa da quella degli alberghi e dei locali per turisti. Uomini e asini attraversavano la strada senza curarsi delle auto, le merci occupavano i marciapiedi e i soliti taxi gialli sfrecciavano senza pietà fendendo la folla.
Ci fermammo in una piazzetta, sulla quale si affacciavano alcune case basse con le porte celesti e le mattonelle decorate con fiori sbocconcellati dal tempo. Lasciammo la macchina di fronte ad un caffè per soli uomini, accostata ad un tavolo dove un vecchio grinzoso continuò imperterrito a fumare la sua chicha senza degnarci di uno sguardo.
Noura entrò in una di quelle porte e mi invitò a seguirla
“Questo è il mio negozio.“ fece tutta orgogliosa e incominciò a mostrami i diplomi che stavano attaccati al muro scrostato.
Quei poveri fogli incorniciati evocavano immagini di altre stagioni. Mi sembrava di essere sulla scena di un film italiano degli anni ’50 . Anche le foto sgualcite delle modelle sembravano appartenere ad un mondo arcaico. Un mondo lontano nel tempo, di cui si conservava ancora qualche folkloristica traccia in qualche sperduto paesino del nostro sud . O nei documentari sull’Italia prima del boom economico.
“Sono brava! – esclamò Noura- accennando ai flaconi di shampoo e di lacca dall’aria usurata, alle vecchie spazzole sparse sulla mensola appoggiata su due cassette di legno e al lavandino improvvisato in un angolo della stanza. Una misteriosa tenda divideva il negozio dal resto del tugurio.
Eppure quel luogo mi risultava stranamente familiare. C’era qualcosa che me lo rendeva conosciuto. Se ci ripenso, nemmeno ora saprei dire perché.
Ma ben presto mi accorsi che la padrona di casa non intendeva ancora congedarmi. Infatti, scostata la tenda, mi fece entrare in un cortile invitandomi a salire su per una scala che portava nel suo appartamento. Salimmo su un terrazzo che si affacciava sulla città. Il solito vento che veniva dal mare mi fece riavere. L’eco delle voci della piazza giungeva smorzato lassù in alto. Guardai in giù: in mezzo ai muri sbocconcellati delle case e ai cortili brulicanti di agavi scorsi una distesa di pietre. Noura notò la mia perplessità e mi spiegò : “Quello è il cimitero”.
Entrammo in una delle porticine che si affacciavano sul terrazzo. La casa era decisamente superiore alle mie aspettative. Il salotto era in ordine e aveva anche un divano un po’ consunto ma dignitoso.
In mezzo al tavolo stava un grande piatto di coccio pieno di susine scure dall’aria invitante. Noura notò il mio sguardo avido. Ne prese una e me la porse. Non dimenticherò mai il sapore di quel frutto, aspro e zuccherino al tempo stesso. Anche lei ne prese una e prima di addentarla mormorò con un’espressione che mi parve sconsolata: “El awina hzina”.
“Che cosa significa? “ le chiesi incuriosito. Lei mi guardò e poi rise, mostrando di nuovo i suoi denti bianchissimi: “ ‘El awina hzina’è ‘la susina triste’. Non vedi che la mia è diversa dalle altre?”
“El awina hzina” provai a ripetere lentamente. E quel suono mi sembrò musicale, anche se evocava un’immagine malinconica. Che idea assurda … come faceva una susina ad essere triste? Quella ragazza era davvero strana!
La salutai sulla soglia di casa. Sapendo dentro di me che l’avrei rivista presto.


V

La sera, seduto ad un tavolo del Ristorante Pizzeria “da Giusy” ero talmente preso dai miei pensieri che non apprezzai come avrei dovuto il piatto di spaghetti al tonno che la ristoratrice italiana mi aveva fatto preparare con tanta passione. Giusy era una signora sulla sessantina, piccola, grassa, pugliese e dall’aria decisamente manageriale. Se ne stava alla cassa, esponendo in bella vista un pesante crocifisso d’oro su un generoso decolleté . All’inizio mi raccontò per filo e per segno tutte le vicende legate alla sua mirabolante ascesa professionale in terra d’Africa: dalle invidie dei vicini alla spietata concorrenza con il boss dei ristoratori locali, il quale, per fortuna della mia intraprendente connazionale , era stato da poco trucidato da ben ventisette coltellate. Frattanto i camerieri le frullavano intorno complimentosi , facendo roteare con grande abilità i piatti ricolmi di specialità italiane : “Madame di qua, madame di là …”
Si capiva subito che Giusy era una donna di carattere.
Anche l’orata con le verdure era sublime ma io non riuscivo a perdonarmi per aver perso un pomeriggio così stupidamente. Sapevo che in estate la fabbrica di Anna chiudeva prima . Ma io ero lì alle tre e mezzo. Come poteva essermi sfuggita? Possibile che se ne fossero andati via tutti prima? E Noura? Che ci faceva davanti ai capannoni deserti? Se era venuta a prendere la sorella, perché non era con lei? Dato che non riuscivo a trovare nessuna risposta, decisi di organizzarmi meglio per il giorno successivo. L’indomani Anna non mi sarebbe sfuggita in alcun modo. Sarei arrivato alla fabbrica ancora prima e a quel punto nessuno se ne sarebbe andato via senza che me ne accorgessi.
Uscii dal ristorante con la ferma convinzione che la sera successiva mi sarei seduto al tavolo con Anna e avremmo chiarito tutto. Anzi, immaginavo già la sua sorpresa e la sua contentezza nel vedermi. Cercavo di convincermi che la sua fosse una tattica per mettermi alla prova e che, avendola brillantemente superata, avessi diritto a riallacciare la nostra relazione.
Insomma cercavo d’ingannare l’attesa ingannando me stesso.
Passeggiai per più di un’ora sul lungomare. Un po’ per digerire la cena di Giusy, un po’ perché temevo che non mi sarei addormentato facilmente. Cercai di distrarmi osservando le famiglie che passeggiavano in su e in giù, le luci che si riflettevano sul mare e le solite bandiere che sventolavano fra le palme.

Quando accesi la luce erano le due di notte. Avevo la bocca amara e un peso sullo stomaco. Aprii la finestra e mi sedetti nel balcone per respirare l’aria della notte. Il canto incessante dei grilli si confondeva con il rumore del condizionatore. Mi accesi una sigaretta , versai dell’acqua in un bicchiere di carta e mi misi a osservare la vita notturna sotto di me.
Lo sguardo mi cadde subito sullo specchio turchese della piscina che rifletteva sia la luce dei lampioni che l’ombra delle palme. In un angolo, una coppia di turisti nordici se ne stava sdraiata sul prato contemplando le stelle in compagnia di diverse bottiglie di birra.
All’improvviso, qualcuno sgusciò da dietro una catasta di lettini. Sentii una risata soffocata e distinsi subito una figura nota, seguita da un ragazzone nero in mutande fosforescenti con una folta capigliatura rasta. Sentii chiaramente la voce stridula di Tilde: “ Ma no, caro, non possiamo andare in camera mia. C’è Carla che dorme e, anche se ha il sonno pesante, non mi sembra proprio il caso …. Perché non ci facciamo un bel bagno?” Il ragazzo sembrò convinto. Incominciò a fare delle flessioni e a massaggiarsi i muscoli. Alla fine si gettò in acqua, non dopo aver spinto la sua compagna che cominciò subito ad annaspare, starnazzando e ridendo. I due turisti nordici non ci fecero caso. Mentre Tilde e il suo accompagnatore si lasciavano andare a rumorose effusioni acquatiche, aspiravo il fumo senza troppa voluttà, nella speranza che gli spaghetti al tonno di Giusy si decidessero a sloggiare dal mio povero stomaco.
Alla fine, dopo che Tilde e il suo fascinoso animatore erano usciti gocciolanti dalla piscina per infrattarsi nel buio , spensi la sigaretta nel bicchiere d’acqua e me ne tornai a letto, oppresso da pensieri inquieti.

VI


La mattina dopo mi svegliai pieno di buoni propositi. Avrei preso un caffè, avrei fatto un giro per il centro della città e poi mi sarei messo in viaggio con largo anticipo. Questa volta sarei arrivato presto. Molto presto.
Provai a sedermi al Fly Coffee, a lato dell’albergo. Era un posticino davvero piacevole: uno poteva sedere al tavolo a sorseggiare un caffè o a mangiare una crepe, accendere il portatile, leggere un giornale o, più semplicemente, godersi la vista del mare da dietro la balaustra della veranda. E tutto questo senza che nessuno venisse a rompere le scatole. Sarebbe stato il posto ideale se l’attesa non mi fosse risultata insopportabile. Il mio stato d’animo si esprimeva in un tremito nervoso che mi saliva lungo i muscoli delle gambe e non voleva darmi tregua. Avevo un urgente bisogno di camminare. Così pagai il conto e mi avviai verso il centro. Ma non avevo voglia di infilarmi nel caos della medina, così evitai il dedalo di vicoli e gallerie punteggiate da moschee e hammam e mi diressi verso la parte più moderna della città.
Mi ritrovai in un attimo al mausoleo di Bourguiba e percorsi il lungo passaggio pedonale sotto un sole già cocente che si rifletteva fiammeggiando sulle cupole verdi e oro. Entrai distrattamente nel mausoleo, mi soffermai a guardare alcuni oggetti che erano appartenuti al presidente, visitai la sua tomba e quelle dei suoi familiari. Visto che ero lì, tanto valeva che mi sforzassi di fare il turista.
Ma alle tredici in punto ero già al volante della solita auto a noleggio e mi dirigevo, più sicuro del giorno prima, lungo lo stradone polveroso, superando da destra i camion che mi impedivano la corsa e usando il clacson come facevano da quelle parti. Ossia come una tromba di guerra.

Davanti alla fabbrica ancora silenzio e polvere. Stavolta non c’erano né la donna- pinguino né il bambino scalzo. Solo qualche tacchino litigioso e un paio di galline dai riflessi rallentati che razzolavano fra i bidoni di latta incandescenti.
Mi accesi una sigaretta ma la spensi quasi subito: non era il caso di aggiungere altro calore al calore. Scesi di macchina. E fu allora che la vidi.
Noura sbucò dallo stesso vicolo, con lo stesso velo turchese e gli stessi abiti del giorno prima. Come se mi aspettasse, mi corse incontro, con una cordialità che mi stupì ma, al tempo stesso, mi fece piacere.
Era contenta di vedermi :“Oggi sei arrivato prima, eh?”
“Già … - feci io – questa volta non mi sfuggirà!”
“ Ho paura che nemmeno oggi la potrai incontrare - replicò lei con un’espressione dispiaciuta - Mia sorella mi ha telefonato proprio ora. Dice che il Direttore ha mandato lei ed Anna a Monastir per prendere dei campioni.” E per convincermi che aveva detto la verità mi mostrò il suo cellulare. Come se potesse parlare per confermare la sua versione.
Confesso che l’idea di essere stato fregato anche questa volta mi fece piombare nel più completo sconforto. Incominciavo a sospettare che tutti congiurassero contro di me. Persino Noura.
Eppure lei sembrava dalla mia parte. Almeno a giudicare dall’espressione sconsolata e partecipe.
“Senti, Giorgio, vuol dire che la vedrai domani … Intanto me lo dai un passaggio?”
“Certo che te lo do. Almeno mi rendo utile.”
In macchina continuammo il dialogo che avevamo iniziato il giorno prima. Un dialogo affettuoso e confidenziale. Come se ormai la nostra fosse una complicità di lunga data.
E quando lei mi chiese se avevo paura che Anna non mi volesse vedere, non seppi che cosa risponderle. Ci pensai un attimo e, mentre sorpassavo un carretto trainato da un asino, le risposi come se parlassi a me stesso: “ Bella domanda, davvero. E’ chiaro che ho paura di sentirmi dire che è finita. Però me lo deve dire in faccia. Dimmi la verità, scommetto che l’hai vista . Ti ha detto qualcosa, vero? Sembra proprio che tu conosca molto bene le sue intenzioni…”
Noura sorrise mestamente. Poi scosse la testa e aggiunse: “ Ascolta Giorgio, tu sai benissimo che lei non vuole incontrarti. Altrimenti ti avrebbe cercato, no?”
Il discorso non faceva una piega. Stavo per replicare un po’risentito per la sua franchezza, quando un gatto grigio attraversò la strada e sfiorò il paraurti. “Attento!” gridò Noura . Sterzai bruscamente, riuscendo ad evitarlo per un pelo.
“Vita difficile per i gatti tunisini. – feci io, asciugandomi il sudore dalla fronte con una manica della camicia.
“ Non peggiore di quella degli uomini.- replicò lei- Da noi i gatti sono magri ma sono rispettati. Il Profeta amava molto i gatti. Lo sai che una volta, chiamato alla preghiera, per non svegliarne uno che gli dormiva sulla tunica, si tagliò una manica?”
Non le risposi. Ero troppo assorto nei miei pensieri. Francamente in quel momento la sorte dei felini maghrebini era l’ultima delle mie preoccupazioni.
Ma anche Noura sembrava pensierosa. Ero convinto che conoscesse Anna molto di più di quanto volesse darmi ad intendere. E avevo la netta sensazione che facesse da tramite fra lei e me ma non ebbi il coraggio di chiederle altro.
Noura, da parte sua, tacque finché non rientrammo a Monastir.
Come il girono prima, parcheggiai nella piazzetta davanti al suo negozio. Scesi dalla macchina, come se anche questa volta mi avesse tacitamente invitato. Entrati nel negozio, Noura scostò la tenda e mi fece strada su per le scale. Di nuovo mi ritrovai sul terrazzo e, infine, nel salotto di casa sua. Ma stavolta la tavola era apparecchiata.
Senza una parola si mise a trafficare in uno stanzino accanto che doveva essere la cucina. Sentii aprire un rubinetto e udii distintamente un suono di tegami e di stoviglie.
Poco dopo eravamo a tavola davanti a un grande piatto colmo di cous cous , carne e verdure. Ma prima volle che assaggiassi l’harissa con l’olio, le olive e il tonno. E rise di gusto quando le dissi che per me era troppo piccante. Alla fine della cena, quando ormai mi sentivo quasi in famiglia, mi tornarono in mente le susine del giorno prima e le chiesi che fine avessero fatto. Allora lei andò in cucina e tornò subito con il piatto fra le mani. “El awina hzina” mormorò portandosi alle labbra una susina matura. “El awina hzina” le feci eco, mordendone una anch’io.
Mentre lasciavo la casa di Noura avvertii dentro di me una sorta di nostalgia che non seppi spiegarmi. Fuori dal caffè, il solito vecchio fumava con lo sguardo perso nel vuoto mentre la voce struggente del muezzin si perdeva lontano fra i portici ingombri di mercanzie, fra gli antichi caravanserragli e i cortili silenziosi della medina.

VII

La mattina dopo, seduto ad un tavolo del Fly Coffee , avevo già preso la mia decisione.
Le parole ambigue di Noura mi avevano fatto meditare. Avevo trascorso gran parte della nottata a fumare sul balcone. Osservando le ombre delle palme e ascoltando il canto dei grilli, ero giunto alla conclusione che la mia misteriosa amica aveva ragione. Era evidente che Anna aveva voluto chiudere la storia senza possibilità di appello. Altrimenti mi avrebbe potuto chiamare al telefono o mandarmi una e mail. Avevo con me il portatile e controllavo la posta ogni giorno, ma anche in rete Anna era desolatamente assente. Ormai mi rimaneva un’ultima possibilità ed ero deciso a sfruttarla. Non che avessi qualche speranza. Volevo semplicemente che fosse lei a togliermi ogni dubbio. Esigevo che mi dicesse in faccia che non mi voleva più. Allora me ne sarei andato, non dico contento ma ragionevolmente rassegnato.
Già – mi dicevo mentre sorseggiavo il mio frullato di pesca – ormai era solo una questione di orgoglio. Possibile che il risentimento nei confronti di Anna fosse più forte della tristezza per averla perduta? E che ruolo aveva avuto l’amicizia con Noura nell’evoluzione dei miei sentimenti? Qui non sapevo che cosa rispondere. Una cosa era certa: avevo voglia di rivederla.
Questa volta feci tutto con molta calma. Ormai la strada non aveva più segreti. Mi sembrava di conoscerne ogni tratto e guardavo con cordiale familiarità i due cammelli che sonnecchiavano nella radura poco prima delle saline, i fenicotteri rosa e persino il toro legato al palo.
Davanti alla fabbrica, come al solito, non si vedeva anima viva. Eccetto una grossa berlina scura parcheggiata fra i bidoni di latta.
Erano le tre in punto e non vedevo l’ora di vedere … Noura. Mi sorpresi a pensare che aspettavo con ansia più lei di Anna.
E forse proprio perché non l’aspettavo più, questa volta Anna uscì per prima da uno dei capannoni. Con un abito rosa e i sandali legati alle caviglie. E non era sola: camminava per mano ad un tipo robusto . I due avevano un’aria molto confidenziale. Diciamo pure che ostentavano una certa intimità, dal momento che lei, dopo essere entrata nella berlina scura, si gettò fra le sue braccia e gli scompigliò i capelli con la mano. Dal mio punto di osservazione potevo vedere tutte le loro effusioni . Possibile che Anna non mi avesse visto? Forse aveva preferito far finta di non riconoscermi. O, magari, non aveva fatto caso a quell’estraneo vestito di lino che se ne stava in disparte ad aspettare chissà chi …
Devo dire che quell’improvvisa rivelazione, invece di sconvolgermi, mi infuse una calma impensabile. Era una sensazione quasi di sollievo, come se avessi fatto tutta quella strada per constatare quello che già sapevo. Aveva ragione Noura: ora finalmente potevo mettermi l’anima in pace! Già, e Noura che fine aveva fatto? Come mai tardava a sbucare dal solito vicolo fra le case ?
L’aspettai per più di un’ora, sperando di veder spuntare il suo velo turchese fra la polvere. Intanto se ne erano andati anche gli ultimi operai. Non mi restava altro che tornare in città.

Quasi meccanicamente, appena entrato in Monastir, seguii d’istinto la strada che avevo imparato a conoscere.
Quando parcheggiai l’auto nella piazzetta, il sole stava tramontando e il muezzin chiamava i fedeli alla preghiera. Il caffè per soli uomini era stranamente deserto e la porta del negozio di Noura era chiusa.
Bussai ripetutamente e la chiamai per nome. Stavo per andarmene quando la porta si aprì e apparve una donna anziana avvolta in un lungo abito nero .
“Mi scusi, cerco Noura …” incominciai. Ma la donna non capiva. Allora cercai di farmi intendere con quel poco francese che sapevo: “Noura … Je cherche Noura …”
Lei mi guardò come si guarda un marziano. Poi aprì del tutto la porta e mi invitò ad entrare. Il negozio mi apparve freddo e desolato, anche se ogni cosa era al suo posto. La donna scostò la tenda e mi fece cenno di seguirla. Salimmo sul terrazzo ed entrai, in preda ad una crescente inquietudine, nel salotto che ben conoscevo. Mi confortò la vista del piatto con le susine che se ne stava tranquillo in mezzo al tavolo.
“Aicha, Aicha … “ strillò all’improvviso la vecchia, facendomi sussultare sul divano sul quale mi aveva fatto sedere.
Un istante dopo, dalla porta della cucina apparve una donna più giovane che si rivolse a me in italiano : “Sei italiano? Sei un amico di Noura?” mi chiese in preda ad un evidente turbamento.
“Sì – feci io esitando – pensavo di trovarla alla fabbrica …”
“ Quale fabbrica?” chiese lei perplessa.
Nel guardarla più attentamente notai che assomigliava a Noura,anche se era meno giovane e meno bella di lei. Ebbi un’intuizione: “Scusa , sei la sorella di Noura? L’amica di Anna?”
“Sì, sono sua sorella, ma non capisco … Perché conosci Anna?”
“ Noura mi ha parlato di te – dissi in tono confidenziale – e mi ha detto che lavori con la mia … amica Anna.
“Non è possibile. - fece lei disorientata – Mia sorella non poteva conoscere Anna. Quando è successo, io e Noura eravamo a Rimini e Anna è qui da poco tempo ...”
Forse c’era un equivoco. Magari la donna che avevo davanti non conosceva bene la mia lingua . Di sicuro mi aveva frainteso. Ormai in preda ad una crescente agitazione cercai di spiegarmi meglio: “ Scusami, vorrei solo sapere dove posso trovare la mia amica Noura”.
Aicha sospirò, infine mi prese per mano e mi condusse sul terrazzo.”Là sta Noura – mi sussurrò indicando le pietre del cimitero, che apparivano più bianche sotto gli ultimi bagliori del tramonto.
“ Ma che dici?” mormorai impietrito.
Allora Aicha rientrò in salotto e mi fece sedere sul divano. Poi, sforzandosi di trovare le parole, mi spiegò che due anni prima sua sorella l’aveva seguita a Rimini, dove lei aveva già un lavoro. Nouraa era stata assunta come cameriera in un ristorante vicino al mare.
“ Si stava bene a Rimini … la gente era cordiale e si guadagnava abbastanza – qui la voce di Aicha si spezzò -. Poi Noura si mise con il padrone del ristorante ma lui aveva un’altra donna e quando lei lo seppe divenne molto … hzina … voglio dire triste … depressa, come dite voi. E un giorno prese tutte le pasticche e non si svegliò più”. Aicha sospirò, abbassando la testa in silenzio.
Mentre lei parlava, la guardavo esterrefatto. Mi sembrava di precipitare in una voragine o di avere le allucinazioni . Non ebbi la forza di chiederle altro.
Aicha rimase male nel vedermi tanto addolorato: “L’avevi conosciuta al ristorante? Ti aveva dato il nostro indirizzo? Quello che hai visto era il negozio di parrucchiera che aveva prima di partire. Era meglio se lei rimaneva qui …”
Poi, notando che guardavo come ipnotizzato il piatto delle susine, lo prese dal tavolo e me lo porse, invitandomi a prenderne una. Come un automa, scelsi quella che mi sembrò la susina più matura e mormorai : “El awina hzina”.
“El awina hzina” ripetè Aicha, sorpresa. Poi sorrise con una dolcezza che mi ricordò quella di Noura.
A quel punto non avevo niente altro da chiedere. Salutai in fretta sia lei che la vecchia ed uscii dalla loro casa proprio mentre il muezzin finiva la sua litania. Entrai in macchina e percorsi, pervaso da una calma irreale, le strade del centro.
Passai vicino al mausoleo di Bourguiba, superai quasi “in trance”un paio di semafori rossi e parcheggiai l’auto vicino all’albergo. Rigorosamente in divieto di sosta.
Nella hall del Delphin Ribat, Tilde e Carla, tutte agghindate come per una sagra di paese, si intrattenevano civettando con l’animatore rasta, in attesa della cena.
Salutai frettolosamente il ragazzo del bureau, afferrai la chiave della mia stanza e sgattaiolai su per le scale evitando l’ascensore per non dover salutare nessuno.


VIII

In camera c’era odore di pulito. Come ogni giorno, la cameriera aveva riposto il mio pigiama sul cuscino ripiegandolo a forma di ventaglio. Ma questa volta ci aveva appoggiato sopra anche un fiore giallo. Aprii la finestra senza degnare di uno sguardo né la piscina né i suoi frequentatori notturni. Poi accesi una sigaretta e la fumai fino in fondo. Fino a farmi pizzicare la gola. Alla fine, mi spogliai lentamente e mi sdraiai sul letto senza indossare il pigiama, che spostai sull’altro cuscino, facendo ben attenzione a non rovinare la coreografia e a non sgualcire il fiore.
Contrariamente a tutte le previsioni, quella notte dormii profondamente. Non ricordo nemmeno di aver sognato. Aprii gli occhi solo quando la prima luce filtrò dalle tende . Ma mi girai subito dall’altra parte, lasciando che il sonno mi vincesse di nuovo.
Solo quando mi sedetti al tavolo della colazione, in mezzo ai vassoi di croissant e alle tazze fumanti, mi tornarono nella mente le immagini del giorno prima. Per la prima volta mi resi conto di essere diventato, mio malgrado, il protagonista di una storia assurda. Una storia completamente illogica che mi faceva dubitare persino della mia salute mentale.
Eppure ero sicuro di non essermi inventato niente. Ero pronto a giurare che quello che mi era capitato era tutto vero: gli incontri con Noura, la sua casa inquietante e misteriosa, le sue parole sfuggenti che mi avevano fatto meditare sulla mia inutile ricerca di Anna e anche la storia tragica che mi aveva raccontato Aicha. Tutto questo non poteva essere frutto della mia fantasia sovreccitata. Anche perché non ero affatto il tipo capace di evocare fantasmi. No, sicuramente ci doveva essere una spiegazione razionale. Noura era una donna in carne ed ossa. Ci avevo parlato, avevamo mangiato insieme e l’avevo persino toccata. Ma soprattutto era stata lei ad aprirmi gli occhi e a farmi accettare la realtà. Prima di allora avevo evitato in ogni modo di mettermi in discussione: spiegavo ogni parola e ogni gesto di Anna in funzione dei miei desideri. Avevo un disperato bisogno di illudermi e di modellare la realtà come la volevo io. I sentimenti di Anna, i suoi dubbi e il suo indiscutibile addio non avevano nessuna importanza. C’era voluta Noura per farmi accettare l’idea che non si possono imprigionare le persone con la scusa che si amano. O si crede di amarle.
Già, perché era stata proprio Noura a dirmi: “Non puoi costringere una persona ad amarti e non devi sprecare l’amore con chi non lo vuole più. E poi nemmeno tu le vuoi più bene. La vuoi solo perché credi che ti appartenga. . E’una storia chiusa, Giorgio, e per te se ne apriranno altre nuove. Non perdere più tempo altrimenti lo rubi a un’altra donna.”
Mi sembrava di sentire ancora le sue parole . E proprio ora che le avevo capite, avrei dovuto accettare l’idea che dovevo ringraziare un fantasma? Se avessi raccontato questa storia a qualche amico, avrebbe sicuramente invocato il trattamento sanitario obbligatorio.
No, non potevo confidarmi con nessuno.
Mancavano ancora altri tre giorni alla partenza. Prima, non c’erano altri voli . D’altra parte, devo ammettere che non mi dispiaceva affatto perché ormai quel posto era diventato un po’anche mio. Mentre passeggiavo per il mercato mi sembrava di aver sempre sentito quelle voci e quegli odori. Prima ancora che negli orecchi e nel naso, mi erano entrati nell’anima. Come se da sempre facessero parte di me. Era incredibile a dirsi ma mi sentivo più leggero. Come se un peso opprimente si fosse deciso a scivolarmi via dal cuore e dalla mente. Solo l’immagine di Noura mi metteva addosso uno struggente senso di mancanza, tanto che mi sorpresi più volte a cercarla in mezzo alla strada. Ogni giovane donna che passava poteva essere lei. E ogni volta sentivo accelerare i battiti del cuore , finché la delusione prendeva il posto della speranza.
Quei tre giorni passarono così, fra una cena da Giusy e una bevuta al Fly Coffee, fra una passeggiata sul lungo mare e una salita al Ribat. L’unico posto dove non ritornai più fu la piazzetta della medina dove c’era la casa di Noura. Sapevo che non mi sarei più avvicinato a quel posto e ne rimasi volutamente lontano.
Finalmente venne il momento della partenza. Mi ritrovai di nuovo all’aeroporto in attesa del cheek in , confuso fra la folla dei soliti turisti che avevano viaggiato con me una settimana prima. Riconobbi il signore brizzolato, la coppia in viaggio di nozze, i bambini rompiscatole stavolta armati di cammelli di plastica e il solito babbo abbronzato come un portuale livornese. E naturalmente Tilde e la sua amica Carla, che salutavano malinconiche il loro animatore rasta , promettendogli di tornare a Pasqua.
Mentre aspettavo in coda al controllo dei documenti, un presentimento improvviso mi spinse a guardare meglio in cima alla fila. Fu allora che intravidi una macchia turchese confusa fra mille altre di vari colori. Il cuore mi incominciò a battere forte. Con un balzo lasciai la fila e cercai di avvicinarmi alla ragazza che portava il velo di quel colore. La potevo vedere solo di spalle. Cercai allora di avvicinarmi a lei ma quelli che avevo davanti mi guardarono male e si strinsero a falange pensando che volessi infiltrarmi per passare avanti. Fu questione di un attimo. La ragazza con il velo turchese si girò improvvisamente e … la vidi. Sono sicuro che mi abbia sorriso. Addirittura mi parve che mi strizzasse un occhio. Era lei, Noura! Lo sapevo che non mi avrebbe lasciato andare così, senza un saluto. Feci per raggiungerla ma il suo velo turchese scomparve nella calca. E non la vidi più.
Poco dopo, seduto nella mia poltrona, guardavo dal finestrino la coda dell’aereo che si muoveva lentamente iniziando il decollo.
Mi sentivo più tranquillo ora che l’avevo vista di nuovo. Ora sapevo che non mi ero inventato niente. E capivo finalmente anche il senso di quell’incontro.
Ero ancora accaldato e avevo sete. Aprii lo zainetto che tenevo sulle ginocchia. Ma, nel cercare con la mano la bottiglietta dell’acqua minerale, toccai qualcosa di sferico e di morbido che mi lasciò interdetto: era una susina. La tolsi dallo zaino e la riconobbi subito. Colto da un’improvvisa sensazione di serenità, l’addentai proprio mentre l’aereo si staccava da terra , mormorando fra me e me: “El awina hzina”. Quel frutto aveva un sapore che mi era familiare: quello della nostalgia e della consapevolezza, del rimpianto e della consolazione.
Mentre l’aereo si immergeva in mezzo alle nuvole , il signore brizzolato che sedeva a fianco mi sorrise sotto i baffi con uno sguardo d’intesa.

"AL HORIYA"(LA LIBERTA')

"PAROLE PER STRADA" E' UNA RACCOLTA DI BREVISSIMI RACCONTI CHE HANNO PER TEMA "IL RECIPROCO RISPETTO TRA I POPOLI E LE CULTURE CONDIZIONE INDISPENSABILE PER OGNI RELAZIONE DI AMICIZIA E DI PACE (ED. IL FURORE DEI LIBRI, COPERTINA DI BRUNO ZAFFONI)

“Al horiya” (“La libertà”)
E’ una torrida mattina di luglio quando mi avvio sul lungomare assolato di Monastir.Confusa in mezzo alla folla colorata, cammino sull’asfalto rovente e mentre supero banchetti di mandorle sgusciate e bambini carichi di mazzetti di gelsomini , non posso fare a meno di pensare alla bizzarria del caso.
Sono passati solo sei mesi dalla festa di nozze più allegra della mia vita e ora eccomi di nuovo qui. In mezzo all’odore intenso e inebriante delle spezie, all’ombra delle possenti mura del Ribat nonché in balia di questo pericoloso esercito di taxi gialli che sfrecciano veloci, incuranti di ogni codice della strada.
Superata la medina , in fondo a un dedalo di vicoli, spuntano all’improvviso le mura bianche del liceo privato “Al horiya”.
In mezzo a tante dimore fatiscenti, le finestre dipinte di rosa e la targa di ottone sulla porta fanno proprio uno strano effetto.
Il professor Hammouda mi viene incontro, mi abbraccia con calore e mi accompagna a visitare la sua scuola appena ristrutturata. Nel vedere le aule dipinte di fresco, i banchi con i computer e la bandiera che sventola in mezzo al cortile, mi sento orgogliosa anch’io. Non solo perché sono un’insegnante ma anche perché mi piacerebbe vedere le facce stupite di quei miei connazionali che sei mesi fa si sono tanto scandalizzati per la scelta di mia figlia. Sì, vorrei che fossero tutti qui e ammettessero che “Al horiya” è una gran bella scuola e che mio genero è un professore davvero in gamba.
VIII
Per chi suona la ghironda

Monna Lucrezia è una sognatrice. Sogna fin da quando era bambina e lo fa per sfuggire a una realtà che le appare priva di ogni diletto.
Vanni, con le sue invenzioni, la fa sentire straordinariamente viva. Ma, soprattutto, la incuriosisce con il racconto fantastico di quello che ha visto. O meglio, che ha immaginato di vedere. Lei ha compreso subito che le sue avventure sono in gran parte il frutto della sua fertile fantasia ma le piace quel suo modo spontaneo e accattivante di raccontare le storie. Storie alle quali lei non crede affatto ma che le piacciono proprio perché sono impossibili. Anche quando lui le mormora parole d’amore, Lucrezia sa benissimo che non sono farina del suo sacco ma ride di un riso argentino che rompe il silenzio delle sale deserte della Smilea.
“Lussuria è causa della generazione. Gola è mantenimento della vita .” le sussurra il pittore, mentre la bacia sul collo nel calore soffocante del fienile o all’ombra del fico, spacciando per suoi quelli che sono invece pensieri del suo amico Leonardo.
Vanni si è offerto di farle un ritratto e il Panciatichi, impietosito dai suoi abiti sdruciti e dalla sua magrezza, ha finito per commissionargli il quadro. In verità, lo hanno convinto soprattutto le preghiere di Lucrezia, che, poverina, si annoia a morte relegata in quella campagna che non conosce altra musica che il canto dei grilli, né altra danza al di fuori di quella dei fuochi che ardono in mezzo alle stoppie.
Messer Simone sa di essere anziano e troppo preso dai suoi traffici per soddisfare quella giovane moglie inquieta e tanto diversa dalle donne della sua famiglia. Solo ora si rende conto che ha sbagliato a sposarla. Ma è tardi. Inoltre non vuole dare soddisfazione ai suoi parenti che tanto hanno osteggiato quest’unione con una donna di famiglia nemica.
Così, quando lei, arrossendo come una bimba scoperta a rubare le ciliegie, gli racconta quello che Vanni le mormora mentre le fa il ritratto nella penombra della torre, messer Simone scuote la testa e si lascia prendere dalla malinconia. Allora, per farla sorridere, le promette che prima della fine dell’estate inviterà ospiti illustri e musicanti. E farà una grande festa di cui lei sarà la regina.
Vanni, dal canto suo, non si rende conto che Messer Simone non si fa ingannare dalle sue lusinghe e che non è così stolto da credere che un giorno lui lo renderà famoso insieme alla sua sposa, rappresentandolo in un ritratto che farà concorrenza a quello che un pittore fiammingo ha fatto molti anni prima al mercante Arnolfini e a sua moglie.
Al Panciatichi non sfuggono certo gli sguardi complici che il giovane rivolge a sua moglie mentre suona per lei una vecchia ghironda che ha trovato in un baule. E non gli sfugge nemmeno la frenesia che agita le gambe di Lucrezia: l’allegria che si sprigiona dallo strumento le fa venir voglia di danzare a piedi nudi. Lo farebbe volentieri, se non fosse una tentazione del diavolo.
Simone comprende e la contempla in silenzio. Pur temendo la vitalità della moglie, sa che la sua saggezza senile deve allontanargli dal cuore ogni ombra di gelosia. Quello che prova è semmai un sentimento di compassione, unito al rimpianto per la sua giovinezza ormai fuggita. Per questo è così magnanimo da lasciare che Lucrezia si inebri del calore del meriggio e che il rosso dei suoi riccioli si confonda nei campi con il rosso dei papaveri.

VENERDI' 21 GENNAIO ALLA VILLA SMILEA DI MONTALE ALLE ORE 21,00

DOPO CHE ANDREA DAMI AVRA' PRESENTATO L'ISTALLAZIONE "PASSATO-PRESENTE" NELLA TORRE NORD DELLA SMILEA, NEL SALONE DELLE FESTE, CRISTINA BIANCHI PRESENTERA': "IL SOSPIRO DI MONNA LUCREZIA" OVVERO LA STORIA DELLA DAMA VELATA DEL CASTELLO VILLA SMILEA.

CENA ALLA TRANQUILLONA: SPETTACOLO DELLA COMPAGNIA ACQUAINBOCCA

GLI ATTORI HANNO RECITATO:"lE MULES E IL LEON"(DALL'ANTOLOGIA "RISO NERO" A CURA DI GRAZIANO BRASCHI,ED. DELOS), "l'ULTIMO EUROSTAR PER ANNA K" E "PROFONDO ROSSO"
Il cappotto del babbo

I
Una valigia coperta di polvere

Suono al cancello della villetta alle quattro di un assolato pomeriggio d’agosto.
Il giardino è immerso nel silenzio, rotto soltanto dal frinire di qualche cicala. Per un attimo, mi coglie l’atroce dubbio di aver sbagliato l’ora o, addirittura, il giorno dell’appuntamento. Mi giro verso la collina di Lucciano, costellata di cipressi e non posso fare a meno di pensare che non sembra nemmeno di essere a Quarrata. Potrei trovarmi – perché no? – nel quadro di qualche macchiaiolo minore. Un pittore capace di cogliere l’allegria pomeridiana dei casolari toscani. Quei casolari di pietra che sbucano in mezzo al manto argentato degli ulivi, solcato soltanto da qualche viottolo sassoso.
Alle mie spalle si estende il parco della Màgia, con la villa medicea nascosta nel verde, immersa nel silenzio, dietro una specie di limonaia. E’ uno scenario vivo, anche se sembra assopito sotto il sole abbacinante di agosto.
Finalmente si apre la porta. Silvana mi saluta, con una gentilezza pacata ma festosa. Allora capisco di essere attesa. Non ho sbagliato giorno.
Franca mi accoglie nell’ingresso, dietro la sorella. Mi dà la mano con una stretta cordiale. Senza ombra di formalismo.
Comprendo subito che la mia non sarà solo una visita di cortesia e che le sorelle Nannini non si limiteranno a mostrarmi la loro casa. In realtà, fin dai primi gesti, mi rendo conto, con una sorta di pudico timore, che sto per entrare in un luogo speciale, nel quale il passato rivive nel presente attraverso una sorta di comunione affettiva fra i vivi e coloro che non ci sono più.
Mi sorprendo a pensare che in quella villetta ordinata ed elegante, si respira proprio quella che il Foscolo chiamava “celeste corrispondenza di amorosi sensi”. Ma forse è solo una deformazione professionale da insegnante di lettere.
“Questa casa l’ha fatta costruire il babbo, con una cooperativa dell’ INA CASE. Volle tornare fra le colline dove era nato . Gli piaceva tanto coltivare il podere, andare a caccia, fare il vin santo …”
Silvana e Franca parlano a turno del babbo. Lo fanno in perfetta simbiosi, integrando i reciproci ricordi con una profonda empatia. La loro è una serenità che sorprende. Ma ancora di più sorprendono questa sintonia e questo accordo tacito nel rievocare la loro infanzia con discrezione ma anche con spontanea vivacità.
Franca e Silvana sono capaci di far rivivere i loro cari attraverso gli aneddoti ma, soprattutto, attraverso gli oggetti personali. Appena entrata, ho avvertito subito questa sottile complicità che accompagna garbatamente le parole e i gesti di queste “ due ragazze della prima metà del secolo scorso”, come esse stesse amano definirsi, non senza una punta di affettuosa ironia.
Confesso che me le immaginavo diverse le sorelle Nannini, influenzata sicuramente da consolidati stereotipi.
Invece, mi trovo davanti due signore colte e informate, che mi mostrano con orgoglio un esercito di libri perfettamente schierati nei numerosi scaffali. Ammiro, non senza una sincera invidia, i volumi ben ordinati e senza tracce di polvere. Mi stupisco della presenza di molti saggi e romanzi recenti accanto ai classici perfettamente conservati e ai vecchi volumi degli anni ’50 e ’60. Franca parla di alcuni autori italiani e stranieri e scopro che abbiamo in comune molti gusti letterari . Soprattutto, alcune antipatie.
Silvana, invece, richiama la mia attenzione sul pianoforte, per aggiungere subito dopo, con un velo di rimpianto: “E’ tanto che non lo suono. Avevo incominciato a sette anni . Finite le scuole medie, il babbo mi fece scegliere . Decisi di continuare lo studio della musica e di prepararmi per il Conservatorio. Allora eravamo a Genova. Purtroppo, quando tornammo a Quarrata, abbandonai il pianoforte e incominciai a lavorare. Fu in quel periodo che Franca lasciò l’università.”
Ma, nonostante il sogno irrealizzato del Conservatorio, si capisce che Silvana , come del resto la sorella, è orgogliosa, a distanza di molti decenni, di non rinnegare nessuna delle sue scelte. Si ha l’impressione che le sorelle Nannini non vivano affatto di rimpianti . Anzi, la loro casa, pur conservando gelosamente le tracce di un tempo che non c’è più, emana una sensazione palpabile fatta di passioni e di interessi concreti. Si capisce subito che chi la abita non ha scelto di richiudersi a vagheggiare il passato ma ha consapevolmente deciso di partecipare con impegno ai drammi del presente.
Quando sono arrivata, nel salone a vetri c’era il televisore acceso . Franca stava guardando le Olimpiadi di Pechino . E, prima di spegnerlo ha fatto entusiasticamente il tifo per un atleta giamaicano sul punto di tagliare il traguardo. Mi è dispiaciuto interromperle lo spettacolo, anche perché non avrei mai immaginato che questa asciutta signora di settantatre anni, dall’aspetto austero e quasi monastico, fosse capace di appassionarsi a una gara sportiva alla stregua di un’adolescente.
Continuiamo il pellegrinaggio attraverso le stanze silenziose, mentre un gatto ci osserva imperturbabile dalla comoda postazione del divano del salone. Un altro ci incrocia nell’ingresso ma non sembra turbato dalla mia estranea presenza.
Osservando le molte immagini sacre e i libri di devozione sparsi per le stanze, si potrebbe pensare che queste due pie donne passino le loro giornate a recitare rosari. E invece scopro dai loro commenti, talvolta polemici, che la loro partecipazione alle problematiche religiose è vivace e sofferta.
“Come si può continuare a pensare che la guerra risolva i problemi?” si chiede indignata Silvana. Franca le fa eco con un duro giudizio sui moderni imperialismi che si nascondono dietro ipocrite bandiere di democrazia.
Mi sembra proprio che queste due sorelle, lungi dal richiamare alla mente le figure evangeliche di Marta e Maria , assomiglino piuttosto a un Erasmo da Rotterdam e a un Don Milani.
Fra i tanti dipinti e le numerose litografie appese alle pareti, mi colpisce un quadretto dal gusto vagamente naif. Raffigura una monachella con il suo largo copricapo bianco e una tunica celeste che guida sulle strisce pedonali una fila di bambine tutte vestite di rosa.
Non so perché ma mi pare che il pittore abbia espresso alla perfezione il clima di composta fiducia che si respira in queste stanze …
Mentre entriamo in camera, avverto la netta sensazione che la presenza del maresciallo Giuseppe Nannini, classe 1902, aleggi come un nume tutelare in ogni angolo della casa. E non solo nel salone a vetri , che lui stesso ha voluto così perché si affacciasse sulle sue colline.
La sua è una presenza che si avverte quando Franca mi mostra, con l’amorosa attenzione di una vestale, la foto che ritrae il giovane maresciallo dei carabinieri con la moglie, poco prima della guerra. Sembrano una coppia da cinematografo: lui, con l’aria vagamente baldanzosa, lei, graziosa, con l’onda liscia dei capelli che le ricade sulla fronte. E ancora si impone quando Silvana, sorridendo con una dolcezza quasi infantile, mi fa entrare nel salottino con il grande camino in pietra serena, emblema di una solidità morale propria di altri tempi.
“ Guarda – osserva con fierezza - questa è la sua sciabola d’ordinanza e questo è il suo fucile da caccia. Lo sai che mi portava con sé quando andava al cinghiale?” Silvana parla lentamente, con la voce velata di tenerezza.
Confesso che mi fa un po’ sorridere l’idea di questa signora mite e pacifista che si arma fino ai denti per seguire il babbo sui sentieri scoscesi dietro alle prede …
Ma Franca ha una gran voglia di incominciare il racconto. Non prima, però, di avermi mostrato i preziosi ricordi che tiene custoditi in soffitta.
Così usciamo in giardino e mentre saliamo su per le scale esterne, le vigne e gli ulivi tornano ad essere protagonisti della storia.
“Il babbo veniva da laggiù, dalle colline di Lucciano. La sua era una famiglia di contadini e, siccome c’era tanta miseria, i nonni erano emigrati fino in Brasile. Ma non avevano avuto fortuna e, dopo pochi anni erano tornati al paese. Il nonno Carlo era un uomo semplice ma non si stancava mai di imparare. Figurati che conosceva a memoria tanti versi della Divina Commedia e anche dell’ Orlando furioso.“
Non posso fare a meno di immaginare, come in una specie di quadro fiammingo, la figurina del maresciallo bambino, nelle lunghe serate delle veglie contadine, accucciato accanto al focolare. Chissà come sarà rimasto turbato dalla fine atroce del conte Ugolino! O come si sarà impietosito ascoltando il racconto della sventurata Pia de’Tolomei …
Trovo che abbia dei tratti epici la figura di questo nonno Carlo, che, mentre potava gli ulivi e dava il rame alle viti, si soffermava a declamare le terzine dantesche e le ottave dell’ Ariosto.
Sicuramente, nella fantasia infantile di Giuseppe, le gesta degli eroi evocati dal padre lo avranno invitato a partire con la mente verso altri mondi, dopo aver saltato la siepe di lauro che delimitava il podere di Lucciano.
Così, anche senza navigare in Internet, il penultimo dei sette figli di Carlo Nannini, era capace di immaginarsi un futuro affrancato dalla miseria.
Il filo dei miei pensieri viene bruscamente interrotto da Silvana, la quale mi mostra con evidente orgoglioso quello che rimane della cantina del babbo: una doppia fila di fiaschi scuri e polverosi, allineati come soldatini su una mensola piena di tarli addossata a una parete.
“ Un tempo c’erano anche i caratelli per il vin santo. Il babbo lo faceva da sé. Ma, da quando è morto, nessuno ha più aperto un fiasco .” mi spiega Silvana, visibilmente commossa.
“ Ora sarà diventato aceto …” aggiunge dispiaciuta la sorella.
Ma il ricordo più toccante sta chiuso in una vecchia valigia, tutta coperta di polvere, che Franca tira giù da uno scaffale con religiosa attenzione. Le due “ragazze del secolo scorso” l’aprono all’unisono, come se temessero che l’aria stessa potesse dissolvere quell’oggetto così prezioso.
Sono incuriosita, anche se so già di che cosa si tratta.
“Ecco, questo è il cappotto che portava il babbo in Albania, quando, dopo l’8 settembre del ’43, i soldati tedeschi lo disarmarono e lo portarono via insieme a tanti altri. Finirono tutti in Germania, nel Gemeinschafts lager di Brema. E con questo stesso cappotto tornò a casa dopo due anni di prigionia”. La voce di Silvana si incrina per l’emozione.
E’ un vecchio cappotto grigio - verde, consumato e sdrucito in più punti. Sulle spalle c’è una scritta fatta con la vernice rossa: IMI , che significa “internato militare italiano”. E’ un oggetto che parla da solo, senza bisogno di commenti. Chissà quante volte le sorelle Nannini lo avranno spiegato e ripiegato nel corso di questi lunghi anni …
Lo tocco anch’io, con un gesto timoroso e pieno di pudore, consapevole che quella stoffa che ha resistito a tanta disperazione, è più preziosa della reliquia di un santo medievale. E come una reliquia lo hanno conservato le figlie. Addirittura, con un gesto di infinita tenerezza, hanno cercato di difenderlo deponendo strategicamente in fondo alla valigia, alcune sottili foglietti di i antitarme. Come per preservare l’ultima tenace testimonianza di un’ inconcepibile tragedia individuale e collettiva.
Insieme al cappotto ci sono altri due indumenti, o meglio quello che resta di essi: un tascapane e una giacca striminzita, che gli americani consegnarono a Giuseppe, subito dopo la sua liberazione.
Franca ha le lacrime agli occhi. E non cerca nemmeno di nasconderle :“Guarda com’è piccola. Starebbe a un bambino … E dire che il babbo era un pezzo d’uomo ! Quando tornò era irriconoscibile e i capelli gli erano diventati tutti bianchi.”
Ecco, ora, finalmente, capisco il motivo per cui quest’uomo è ancora così presente nei pensieri delle figlie e fra le mura della sua casa. E perché la sua presenza, lungi dall’essere inquietante, è piuttosto quella, rassicurante e affettuosa, di una specie di Lare domestico. E al tempo stesso, sembra imporsi come un testimone che non vuole in nessun modo essere dimenticato, affinché la sua storia serva a dar voce anche a quei tanti che non sono più tornati.

LE FIGLIE DEL BABBO: CARLA E LUCIANA PECORINI
LA COPERTINA E' DI ANDREA DAMI

IL CAPPOTTO DEL BABBO

ANTOLOGIA " VICINI DA MORIRE"

Siepi alte fanno buon vicinato.
Laura Vignali
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I


La mia insignificante esistenza di insegnante precario sembrava ormai avviata sui binari della monotonia, quando, per un casuale gioco di graduatorie, il destino volle che dall’estremo nord fossi catapultato nella tranquilla provincia toscana. In realtà, devo dire che l’incarico annuale di Lettere al liceo classico di Pistoia non mi dispiacque affatto. Ero stanco di svegliarmi in mezzo alle montagne e di andare a letto con le galline, senza la possibilità di frequentare qualche cinema d’essai, un teatro, o anche la sala da biliardo in un bar che non chiudesse alle nove di sera. L’unico dispiacere era la separazione, speravo momentanea, dalla mia collega di educazione fisica Antonella De Rosa, anche lei confinata al liceo classico di Sondrio, dove l’avevo conosciuta e apprezzata per le sue straordinarie doti umane ma soprattutto per la sua avvenenza tipicamente mediterranea.
Ad essere sinceri, la nostra relazione era apparsa fin dall’inizio piuttosto problematica, dal momento che la mia aspirante fidanzata era già impegnata. E fin qui non ci sarebbe stato niente di male. Il problema era che il compagno di Antonella, tale Giammarco Rotella,titolare di una palestra di arti marziali a Secondigliano, oltre ad essere geloso, aveva tutta l’aria di essere anche piuttosto permaloso. Almeno a giudicare dalle denunce per rissa e lesioni personali che onoravano la sua fedina penale.
Insomma, avrete capito che vivo da solo non per scelta ma per necessità. Questo spiega il perché , appena arrivato a Pistoia, invece di prendere in affitto un monolocale da single, mi fossi lasciato affascinare dall’aria familiare e vagamente fuori moda di un terra-tetto vicino al centro storico. Si trattava di una di quelle villette , in stile liberty povero, con tanto di giardinetto con la palma coloniale e il terrazzino di pietra un po’ scalcinata.
In agenzia, quando avevo firmato il contratto di affitto dicendo che ero solo, l’impiegata mi aveva guardato con un certo stupore. Il titolare, invece, mi aveva ammiccato con sguardo complice, immaginando chissà quali festini e orge fra precari debosciati.
Così, in una tiepida mattina di settembre, struggendomi al pensiero di Antonella che correva in tuta per i sentieri della Valtellina, mi insediai nella villetta di viale De Sanctis, trascinando due valigie stracolme di grammatiche e di romanzi gialli , oltre ad una cesta nella quale stava mollemente adagiato il mio vecchio amico Catullo. Naturalmente avrete già capito che si trattava di un gatto. Nero , per la precisione. E non aveva affatto l’aspetto di un poeta. Semmai poteva essere comodamente scambiato per un vecchio pascià ottomano che, lungi dall’aver dimenticato le arti della guerra, si godeva in santa pace la meritata pensione.
Dopo aver infilato la chiave nella serratura, nello stesso istante in cui mi accingevo ad entrare ufficialmente nella mia nuova dimora, una voce un po’ rauca ma gentile proveniente dal villino accanto, mi fece sobbalzare: “Benvenuto, professore … Lei è un professore, vero?”
L’anziana signora che mi aveva rivolto la parola sembrava un personaggio di altri tempi. Di sicuro il suo abbigliamento austero e un po’ dimesso era molto in sintonia con il viale, nel quale aleggiava una certa aria di riservato perbenismo. Almeno a giudicare dalle persiane chiuse o accostate e dai gerani ben curati che sbucavano fra le inferriate delle finestre.
A quel punto non mi rimase altro che posare i bagagli e presentarmi alla mia nuova vicina, cercando istintivamente di conformarmi il più possibile al prototipo di rispettabile professore che piace tanto alle signore di una certa età. Non so francamente se ci riuscii o meno, dato che avevo la barba di tre giorni e la camicia con i polsini consumati.
Comunque, dopo questo primo frettoloso approccio, la signora Leda Pagnini – così si chiamava la mia vicina - , sembrò prendermi in simpatia, tanto che un pomeriggio, vedendomi tornare affranto da un interminabile collegio docenti, mi invitò inaspettatamente a prendere un caffè da lei.
L’ingresso del villino della Leda era permeato di inquietante familiarità. Sembrava uscito pari pari dai versi di un poeta crepuscolare: pareti verdoline con cornici di stucco sul soffitto, pesante lampadario in ferro battuto in puro stile sepolcrale inglese, poltroncina color rosso cardinale e cassettone con specchiera e gondola veneziana. Non mancavano neppure i ritratti degli antenati attaccati alle pareti, severi e composti nel loro abito della festa: arcigne matrone accanto a fanciulline ricciolute vestite di gale e a distinti signori con i baffi arricciati che guardavano impettiti verso un punto lontano .
“Mi scusi tanto, professore, se non l’ho invitata prima– esordì la mia vicina – ma qui da me non viene mai nessuno. Sa, praticamente, io sono vedova da sempre. Voglio dire che mio marito morì in guerra, pochi mesi dopo le nozze e io non me la sono mai sentita di rimpiazzarlo. Oddio, ad essere precisi, il povero Osvaldo risulta ufficialmente disperso, ma, visto che non è più tornato, tutti l’hanno dato per morto. Ed io per prima.”
La Leda sospirò mandando indietro un ciuffetto di capelli bianchi che portava tagliati a caschetto. Proprio come certe donne nelle cartoline del primo Novecento. Poi, sorridendo con un’espressione volutamente ingenua, soggiunse: “ Lei non crede che, se fosse stato vivo, sarebbe tornato?”
“Sicuramente. - replicai un po’ impacciato, mentre , seduto sul divano del salotto buono, rigiravo fra le mani una tazzina decorata con la torre di Pisa e il Colosseo, senza trovare il coraggio di ingurgitare la brodaglia scura nella quale galleggiavano i fondi di quello che sembrava un orzo dei tempi di guerra.
“Lo vuole un biscottino?” – mi chiese la Leda con impeccabile cortesia.
Non ebbi il coraggio di rifiutare le “marie”, che mi offrì dopo averle garbatamente adagiate sul centrino di un vassoio d’argento. A quel punto, nonostante il mio proverbiale cinismo, non potei fare a meno di farmi invadere da una vampata di tenerezza, nel veder riaffiorare inaspettatamente quell’antico biscotto della mia infanzia. Un biscotto in grado di evocare sensazioni ormai dimenticate. Insomma, mi sentivo un po’ come Proust quando ingurgitava una madeleine dopo l’altra e gli tornava in mente il tempo perduto . Ma forse il confronto suonava un po’ pretenzioso .
Il fatto era che, invece di starmene disteso sul letto di casa mia a fumare e a leggere Simenon, mi trovavo ostaggio di un’anziana vedova dall’aspetto educato e fuori moda, che, fra l’altro, mi incominciava ad incutere anche un inspiegabile disagio. E più ci pensavo e più la Leda assomigliava alla signorina Felicita di gozzaniana memoria.
Non per essere pedante - come mi fa sempre notare Antonella tutte le volte che faccio dotti riferimenti – ma il suo salottino era veramente popolato da una miriade di “buone cose di pessimo gusto”: dal servizio di tazze con i monumenti italiani trionfalmente esposto nella vetrinetta ( lo stesso di cui tenevo fra le mani un pregevole pezzo) , alla pastorella di gesso con tanto di bastone infiocchettato, dal quadretto con le conchiglie incastonate ( da lei stessa definito “prezioso ricordo” dell’unica vacanza a Rimini)alla Madonna di Lourdes di plastica,dono di un’amica devota. Ad essere pignoli, non mancava nemmeno il pappagallo imbalsamato.
“E’ la buonanima di Pippo – mi spiegò la Leda – c’ero tanto affezionata! Ora mi restano soltanto due “inseparabili”. Sa, quei pappagallini che non si lasciano mai … Si chiamano Bobby e Solo. Li vuole vedere?” . E, senza aspettare la risposta, mi fece strada verso il giardino sul retro. Quello che confinava con il mio e che si appoggiava direttamente alle antiche mura della città. Una vera e propria oasi di verde a due passi dal centro storico.
La gabbietta con i due pappagallini stava appesa per mezzo di un gancio ad un ulivo nodoso che doveva risalire ai primi anni del secolo scorso . Del resto, tutto il giardino era in tono con la casa: una panchina e un tavolo in ferro battuto arrugginito dal tempo, un paio di grossi limoni, diverse azalee e un’opulenta ortensia azzurrina ormai quasi sfiorita che conferiva al giardino un delicato alone di malinconia. Sul lato destro, come confine invalicabile, si ergeva una folta siepe di lauro. Una siepe silenziosa e guardinga, piantata chissà quanti anni prima con lo scopo di custodire i segreti di un’intimità piccolo borghese, riservata e gelosa. “Una siepe tipicamente pascoliana … ” stavo per constatare fra me e me.
Ma il pensiero di Antonella, che mi guardava ironica dalla sua cyclette, mi fece improvvisamente desistere dalla dotta citazione.
“Gli Inglesi dicono che le siepi alte fanno buon vicinato! – esclamò la padrona di casa intuendo forse i miei pensieri .”
“E’ vero. – replicai tanto per dire qualcosa.
Intanto la Leda aveva aperto l’usciolino della gabbia e, tirati fuori i pennuti , se li era appoggiati tutti e due su una spalla, rimproverandoli affettuosamente come avrebbe fatto con due nipotini dispettosi: “Gli parli, professore. Sono intelligenti e hanno un gran spirito di osservazione. Si figuri che conoscono le abitudini di tutto il vicinato. Stia attento che non svelino anche qualcuno dei suoi segreti … “ E rise con l’allegra impertinenza di una ragazza di vent’anni.
A questo punto mi sentii in dovere di ripartire equamente i complimenti fra Bobby e Solo ( che, ad essere sinceri, mi sembravano alquanto affranti) e mi chiesi anche come avesse fatto un tipo come la Leda a farsi venire in mente quei nomi . Avrei più facilmente immaginato : Oreste e Pilade, Gianni e Pinotto o, tutt’al più, Bibì e Bobò. Era evidente che la mia imprevedibile vicina era stata un’appassionata cultrice del Rock ‘n Roll.
Ormai stava scendendo la sera ma, nonostante tutto apparisse più indefinito, riuscii a intravedere un’ombra, là nel mio giardino, oltre la siepe di lauro. Era il vecchio Catullo che, accovacciato sulla tettoia dello sgabuzzino degli attrezzi, adocchiava con malcelata noncuranza la gabbietta vuota. Il suo era sicuramente lo stesso sguardo con cui si suppone che Maometto II osservasse le mura di Costantinopoli poco prima di conquistarla.
Erano già passate le sette e non vedevo l’ora di congedarmi ma, passando nella penombra dell’ingresso, lo sguardo mi si posò su una vecchia giacca, appesa all’attaccapanni in fondo alle scale. Era un indumento di foggia militare, consunto e sdrucito. Non so perché ma un leggero brivido mi percorse la schiena. Avvertii subito un impellente desiderio di andarmene. La Leda sembrò intuire la mia inquietudine e, accennando all’attaccapanni, mi chiese: “ Le sembra strano che conservi questa vecchia giacca di mio marito, vero? E’ una delle poche cose che mi rimangono di lui e preferisco tenerla all’aria, invece che chiuderla in un baule della soffitta. Sa, le tarme lavorano nel buio e mi dispiacerebbe che se la mangiassero. E poi così mi sembra che Osvaldo debba tornare da un momento all’altro. Sono anni che vado avanti con questa illusione. Le sembro matta, eh, professore?”
Finalmente, dopo avermi stretto vigorosamente la mano, la Leda chiuse la porta e mi augurò la buona notte. Ma, devo confessare che il sorriso indecifrabile che accompagnò il suo saluto mi lasciò di nuovo inspiegabilmente turbato.

ANTOLOGIA "RISO NERO"

ANTOLOGIA DI RACCONTI "SCACCO MATTO ALLA FARFALLA"

IL SAPORE DEL VINO