mercoledì 26 novembre 2008

domenica 23 novembre 2008

Il dottor Bencistà e il mistero delle tre donne sole




III
         
                            La Nella come la Duval?
 
               La villa della Nella Marchetti se ne stava abbarbicata su un cocuzzolo tappezzato di filari di viti, appena fuori dal paese.      Sotto il loggiato, quasi affogato fra le  conche dei limo­ni, un gatto nero e straordinariamente grasso si godeva il tiepi­do sole di marzo, pigramente sdraiato in una vecchia cesta di vimini.
               Il dottor Bencistà parcheggiò la sua Seicento all’inizio del vialetto alberato e  si incamminò a piedi verso il portone della villa, trascinandosi dietro la pesante borsa di pelle.
               Come ogni mattina, dopo aver devotamente recapitato il solito cappuccino con tre cornetti caldi a quell’ ingrata della Silvana, aveva dato il via al  mesto pellegrinaggio delle visite domiciliari.                
               La telefonata della Marchetti lo aveva svegliato alle sei e mezzo, strappandolo alle lusinghe di un sogno impossibile: la crudele estetista, finalmente commossa dalla sua fedeltà, gli of­friva una ceretta gratuita.
               La signora Nella lo aveva bruscamente riportato alla più prosaica realtà : - Dottore, mi dispiace disturbarla di prima mattina ma ho assolutamente bisogno di parlarle!-
                  - Mi dica...- Il tono del Bencistà non tradiva, come al solito, alcuna curiosità.
                - Mi scusi...dovrebbe venire da me...al più presto. Le spiegherò a quattr’occhi. Ora non posso dirle altro!-
               Così la prima visita fu riservata alla Nella, una delle donne più facoltose del paese e, un tempo, anche una delle più corteggiate. 
               A più di settant’anni, la Marchetti poteva ancora defi­nirsi una bella donna. Sempre elegante nella sua sobria semplicità, con l’irrinunciabile filo di perle intorno al collo, dava l’impressione di dominare ancora la sua quieta esistenza. Se non fosse stato per la sedia a rotelle che manovrava come se fosse una fuoriserie, si poteva pensare che  non avesse bisogno di nessuno.
               -Dottore, si accomodi qui, sulla poltrona...Ivana, puoi andare! Per favore chiudi la porta e, se mi cercano al telefono, di' che sono occupata e che mi richiamino più tardi!-
               L’Ivana sorrise con simulata  timidezza. Il  Bencistà, si lasciò sprofondare  sulla poltrona di velluto, ormai rassegnato ad  ascoltare i malanni di quella paziente  signorile e un po’ di­spotica.
     - Legga questa , per favore. E poi mi dica se devo preoccu­parmi oppure prenderlo per uno scherzo di pessimo gusto!- E gli tese una busta, con la sua mano bianca e ben curata dalla perizia della Silvana.
                La lettera era scritta al computer e il dottore rimase su­bito      colpito dal tono violento della poesia citata: “Gentilis­sima Signora Nella, mi duole ricordarle i versi disperati del Poeta, che ben si  addicono alla sua perfida indifferenza :
 
Quando dormirai, mia bella tenebrosa, in fondo a un monu­mento fatto di marmo nero e quando non avrai per alcova e maniero che una tomba piovosa e una fossa profonda, quando la pietra, opprimendo il tuo petto impaurito e i fianchi ammor­biditi da una grazia indolente, impedirà al tuo cuore di battere e di volere e ai tuoi piedi di correre la corsa avventurosa, la tomba, confidente del mio sogno infinito (perché la tomba sem­pre comprenderà il poeta), in quelle lunghe notti da cui il son­no è bandito, ti dirà: “Che ti serve, cortigiana mancata, non aver conosciuto ciò che piangono i morti?” E il verme ti rode­rà la pelle come un rimorso.
 
Rifletta, cara Nella, sul senso profondo di questi versi sublimi e attenda la giusta vendetta!”
 
 
                - Ebbene, che diavolo significa questa poesia truculen­ta? E chi sarebbe la “cortigiana mancata”? E il riferimento ai piedi che non possono più correre la “corsa avventurosa” non le sembra di pessimo gusto?-
               La signora sembrava più indignata che impaurita.
               Il Bencistà le restituì la lettera con un sorrisetto che non sfuggì alla Nella: - Scusi, dottore, le sembra una lettera tanto spiritosa da farci sopra una risatina?-
               -No, assolutamente! Non vorrei sembrarle cinico ma  ... l’idea di citare una delle poesie più disperate di Baudelaire, come giustamente rileva l’anonimo autore della lettera, mi sembra decisamente interessante!-
               - Interessante un accidente, caro il mio dottore! Vorrei vedere lei, se qualcuno le scrivesse per augurarle di finire sotto il marmo nero , in una fossa profonda e tutte quelle belle cose lì!  Che cosa farebbe, eh?-
               Il Bencistà non poté fare a meno di pensare che chi pa­ragonava la Nella alla infedele amante di Baudelaire, la splen­dida Jeanne Duval, doveva essere un tantino fantasioso.     Cer­cò di spiegare alla Marchetti, che ai suoi tempi aveva preso il diploma di maestra dalle suore, che quel poeta lì non era pro­prio uno stinco di santo e che chi le aveva mandato una poesia di quel tipo aveva sicuramente voluto farle uno scherzo oppu­re... era uno che aveva qualche problema di tipo psichiatrico!
      - Lei dice  che si tratta di uno scherzo? Ma chi può essere stato? Io quel Baudelaire, l’ho appena sentito rammentare. Sa, da giovane mi piaceva tanto D’annunzio ma leggevo anche Liala e Scerbanenco, che, a dirlo fra noi, era un po’ troppo scandaloso...Insomma, non mi riesce di immaginare, fra quelli che  conosco, qualcuno che possa mandarmi una poesia di quel tipo. Figuriamoci, i miei conoscenti leggono a malapena il ca­lendario di Frate Indovino e il Sesto Caio Baccelli!-
               Il Bencistà invece conosceva bene i versi di Baudelaire e, per un attimo, immaginò di declamare “Rimpianto postumo”- questo era il titolo della poesia citata – alla diabolica Silvana, che ben incarnava l’immagine di donna- vampiro così ricorrente nella letteratura decadente...
               Già, perché il dottore era un appassionato lettore, che avrebbe volentieri dimenticato le miserie dei corpi straziati dal­la malattia per avventurarsi nei meandri della finzione lettera­ria! 
               Ma non si poteva e così sublimava ogni giorno, in attesa della sera.
               Allora, riposto il camice infettato dalle sofferenze della carne, il Bencistà, novello dottor Jeckill, annegava  nei piaceri dello spirito, chattando con il suo amico Raffaele, anche lui appassionato lettore e fervido poeta.
        - Cara Nella, credo sinceramente che possa considerarlo uno scherzo..anzi, se vuole un consiglio, si legga  “I fiori del male”. Ma non lo dica a don Gino!- E con l’abituale flemma si alzò dalla poltrona e se ne andò, salutando cortesemente.
              Nell’uscire dal salotto della Marchetti, per poco non in­vestì l’Ivana, intenta ad origliare garbatamente dietro la porta. Purtroppo si scansò un minuto prima di  finirle addosso. Quell’occasione mancata gli sembrò un presagio un tan­tino funesto ma ormai era abituato a guardare gli altri che co­glievano le rose al posto suo. Si incamminò con l’aria mesta di sempre, pronto a compiere il suo prosaico dovere e  a debellare una tonsillite, un focolaio di broncopolmonite e una probabile quinta malattia.



PRESENTAZIONE LIBRO

A QUARRATA VENERDÌ' 5 DICEMBRE 2008 ALLE ORE 21,15 SARA' PRESENTATO IL NUOVO LIBRO:
IL DOTTOR BENCISTA' E IL SEGRETO DELLE TRE DONNE SOLE

giovedì 4 settembre 2008

GIRARDENGO E LA FRITTELLA FATALE

Racconto semiserio dedicato ad un amico geometra – aspirante filosofo.


Il geometra Franco Marcozzi uscì stremato dal portoncino dello studio. Erano le una e quaranta e il suo stomaco, usurato dalle estenuanti pratiche catastali e dai troppi caffè, gorgogliava come un “rivo strozzato”. D’altra parte, sempre per dirla con il suo poeta preferito, poco ci mancava che anche lui, come il cavallo di montaliana memoria, finisse stramazzato sul selciato del vicolo. Immaginò per un attimo la sua carcassa abbandonata nella canicola, facile preda dei cani randagi e di quei maledetti piccioni, che gli istoriavano senza tregua i davanzali di pietra serena dello studio appena ristrutturato.
Il Marcozzi sospirò al pensiero che, invece di sudare nell’afa cittadina, avrebbe potuto volare su per una strada di montagna, in sella alla sua bici.
Già, la bicicletta … L’unica fedele compagna che non si era mai permessa di rimproverarlo. La sola in grado di ascoltarlo, senza rompergli le scatole con problematiche femministe e ritorsioni sentimentali .
E mentre si avviava verso l’auto - un ammasso di lamiere incandescenti sotto il solleone d’agosto - si sorprese a fischiettare una vecchia canzone, che sembrava scritta per lui : “Vai Girardengo, vai grande campione, nessuno ti segue su quello stradone …”
Eh, sì, quelle parole avevano il potere di evocare, nell’animo ormai disilluso del geometra Marcozzi, lontane ed evanescenti immagini di gioventù . Una gioventù che se n’era andata, di soppiatto, senza che lui, troppo impegnato in consulenze e rilevazioni topografiche, si rendesse conto che i capelli gli diventavano sempre più brizzolati e la pedalata più faticosa.
Eppure gli amici lo consideravano ancora un tipo brillante. Almeno quando recitava in teatro, declamando le battute con quella sua voce calda e sensuale, appena arrochita dai sigari e da evidenti segni di bronchite cronica.


Anche quella sera, seduto sulla veranda del suo casale ristrutturato sulla collina di Serravalle, il geometra più sentimentale della provincia di Pistoia – e forse anche della Valdinievole – scriveva sul suo portatile, con il piglio assorto di chi è deciso a lasciare ai posteri la propria sofferta autobiografia.

“Era nato con lo spirito libero e ribelle di chi vuole bere la vita: sempre con quel sorriso irridente stampato nel viso sporco dalla perenne polvere dei campi. Un viso nel quale la capigliatura folta e scura copriva di volta in volta, seguendo i capricci del vento, due occhi che sembravano illuminarsi all'ingegno di chissà quale impresa. Agile come uno scoiattolo, furbo come una volpe, solare come una mattina agostana.”

Il Marcozzi sollevò lo sguardo dalla sua opera. Tirò fuori dal taschino della camicia una scatolina di metallo, l’aprì con religiosa attenzione e prese l’ultimo Cohiba rimasto.
Consapevole che ogni sigaro cubano esige un impegno che si tramuta in goduriosa libidine, lo portò alle labbra bagnandone leggermente la punta. Poi, ne incise il cappuccio con l’apposita cesoia e, infine, concluse il rito dandogli fuoco con un fiammifero di legno.
“Oddio – si disse il nostro aspirante scrittore – forse il tono è un pochino enfatico … Ma rende bene il clima di quegli anni!”
Mentre assaporava una lunga, voluttuosa boccata, si rivide ragazzo, mentre saltava in sella alla bicicletta che aveva vinto alla fiera di Casale e si slanciava, eccitato dalla sfida, su per le curve tortuose del S.Baronto.
Se ci ripensava, a distanza di più di trent’anni, aveva ancora sulle labbra il sapore della lotta. Un sapore esaltante, che ora riaffiorava in tutta la sua intensità, mischiato a quello acre del cubano.
Guardò il cielo che faceva capolino dalle foglie di vite americana del gazebo : quel nugolo di stelle, lassù, sembrava proprio un capannello di comari a veglia …
Non c’era proprio niente da dire. Era nato poeta. Un poeta prestato all’Ufficio tecnico del comune. Costretto ad ascoltare le prosaiche invettive dei capi-cantiere, invece degli idilli leopardiani. Ma sempre un poeta!
Con un ampio respiro assaporò una folata di vento che veniva dal bosco di castagni che si perdeva sul retro della casa.
Si rimise all’opera, deciso a sfruttare l’ aiuto delle Muse fino alla fine .

“Fin da piccolo si capiva che avrebbe avuto il carisma del capo.”

“Beh, non esageriamo … Diciamo che ero un tipo in gamba, anche se mi rimandavano sempre a Italiano e a Inglese. Ma questo si può omettere , perché non è funzionale al racconto. Dunque, dunque …”
Ecco, ora era giunto il momento di far entrare in scena Lei. Sì, proprio lei, la passione mai sopita della sua avventurosa adolescenza. La sua occasione perduta. La sua ninfa proibita.
Cercò le parole adatte per descriverla, così come gli era rimasta impressa nella mente. E come ancora gli appariva nei sogni tumultuosi di un’andropausa inesorabilmente segnata dal reflusso gastro-esofageo.

“Ma soprattutto lei. Una montagna di capelli ribelli, in perenne movimento, uno sguardo volitivo e deciso, due smeraldi cangianti che ti trascinavano in un vortice periglioso e voluttoso. Anche lei una predestinata, destinata a rimanere un sogno proibito.”

“ Ad essere sinceri, la prima volta che ci incontrammo, sui banchi di scuola, lei mi tirò un destro da far invidia a Nino Benvenuti. Ma ben presto l’antipatia iniziale si trasformò in sentimento tenero e appassionato …”

“Divennero inseparabili: interminabili corse in bicicletta sulle strade polverose lungo gli argini, corse a perdifiato per cogliere il fiore più bello della collinetta, a fianco della chiesa, dopo il catechismo. Poi, quando la frescura della sera prendeva il posto dell'arsura del giorno, ci si ritrovava nella piazza del paese, stanchi ma con la gioia dello stare insieme.”

“ Ma, come in ogni fiaba che si rispetti, ecco irrompere sulla scena la bieca figura dell’an-tagonista. Colui che, con le sue arti diaboliche, sbarrerà la strada al nostro eroe e lo sfiderà sulle due ruote, con lo scopo di portarle via la bella dagli occhi cangianti come due smeraldi”
Il mio compagno di banco era un gran figlio di puttana. Ma devo ammettere che con le donne ci sapeva fare. Se non altro per via di quello sguardo ombroso e un po’ strafottente .

“Il suo era il fascino del lupo: ferreo alle regole del gruppo, ma, allo stesso tempo, uno che ama cacciare da solo. Dal suo sguardo non traspare alcuna emozione. Un segugio formidabile, dall'istinto infallibile, abituato a non mollare la preda. Un capo branco. La vita dura dei campi e la prematura mancanza di affetti gli avevano temprato un carattere forte e deciso; ma al tempo stesso, quella carenza di carezze, lo aveva reso vulnerabile nell'animo, e un perenne velo di malinconia lo accompagnava anche nelle giornate più spensierate ….”

“Se per malinconia si intende che era sempre incazzato per colpa della sorella maggiore che lo riempiva di busse … Ebbene, allora sì il mio antagonista, era perdutamente malinconico!”

“Così, come nel più classico dei romanzi, ecco che prende forma la trama: due amici/fratelli diventano nemici/avversari e la bella è inevitabilmente contesa. Ed era bella davvero! ”

“ O perlomeno a me sembrava bella. Oddio, l’ho rivista una decina d’anni fa e devo dire che aveva due fianchi da far concorrenza a un autotreno. I riccioli bruni, con il tempo, poi, erano diventati rosso carota con delle orribili mescioline che davano sul verde marcio. Insomma, si sa che il tempo non è galantuomo. Nemmeno con i primi amori! D’altra parte, come dice il Petrarca: “ … un vivo sole fu quel ch’i’ vidi; e se non fosse or tale, piaga per allentar d’arco non sana.”

Il Marcozzi si deterse con il palmo della mano le goccioline di sudore che gli scendevano sulla fronte, appannandogli le lenti degli occhiali. Scrivere lo entusiasmava ma, al tempo stesso, lo lasciava esausto e con una sensazione di inappagato svuotamento. Ma, soprattutto, con la frustrante consapevolezza di non riuscire ad esprimere il suo contorto mondo interiore.
Più di una volta aveva maledetto gli studi tecnici e aveva rimpianto di non essersi dedicato allo studio della filosofia, che aveva sempre considerato una disciplina congeniale alla sua mente speculativa e immaginifica. Ma ormai era inutile recriminare …
Il geometra sospirò e si rimise all’opera. Ora bisognava rievocare la grande sfida fra lui e il suo rivale. Era senz’altro il pezzo forte dell’autobiografia e bisognava ricreare sulla pagina quel clima epico. Il duello fra il Marcozzi ( Girardengo per gli amici) e Michele Biagini (“il lupo”) assumeva, a distanza di anni, i colori sfumati di un OK Corral. E come in un vecchio film in bianco e nero i due finirono per misurarsi sulla strada polverosa, poveri epigoni di Kirk Douglas e di Burt Lancaster, ingenui eroi delle due ruote, oscuri samurai della provincia rurale …


“Era sempre la bicicletta il confronto: forza, resistenza, sacrificio, tattica, coraggio; era la prova una corsa in bicicletta lungo l'argine del fiume, dove si snodavano, tra dossi e buche, gli stradelli per accedere ai campi. Una corsa in parallelo fino a raggiungere il passaggio a livello incustodito che segnava il traguardo; una corsa piena di insidie perché, oltre alle buche, bisognava schivare anche improvvisi ostacoli: covoni accatastati sui cigli, carri trainati da buoi o da stanchi ronzini. I segni di vecchie croste sulla pelle dei ginocchi e delle braccia erano i bollini per la patente del più bravo. Ma era il passaggio a livello incustodito il punto interrogativo più grosso. E' sempre stata la benevolenza divina a bilanciare l'incoscienza giovanile. E così fu anche per quell'ennesima volata. La più voluta. Il sudore che ti brucia gli occhi, la gola secca dalla polvere, i muscoli oramai allo stremo richiamati dall'orgoglio, il fischio del treno, lo sbuffo del fumo che irrita le narici, una massa metallica sempre più vicina e minacciosa .... urli che squarciano l'afa, scintille di metallo che sibilano nell'aria, una nube di polvere sollevata da pantaloni e camice stracciati. E alla fine quel sorriso irridente si erse mezzo insanguinato …”

“ Eccoci! - si disse il Marcozzi, contemplando le parole sullo schermo del portatile.
In fondo, rievocare la sua prima vittoria, trasformatasi subito in una cocente sconfitta, assumeva un significato terapeutico. Sentiva che la scrittura gli permetteva di liberarsi di tutta una serie di risentimenti che, in qualche modo, avevano condizionato negativamente la sua crescita e che non l’abbandonavano nemmeno ora che stava per varcare le soglie della senescenza .
E poi, diciamocelo pure, scrivere era più conveniente che ingrassare uno strizzacervelli!
Magari nessuno avrebbe letto il suo romanzo. Ma che importava? A lui bastava dar voce ai ricordi evanescenti, alle impressioni sopite, al suo amore mai consumato . Inoltre, il suo, doveva essere – almeno nelle intenzioni – un inno e un tributo alla grande passione della sua vita: la bicicletta!
“E vai con il finale!” si disse il geometra, vuotando il bicchiere di rhum che languiva sul tavolo di giunco.

“Si conoscevano nell'intimo i punti di forza e di debolezza. Ognuno conosceva in anticipo le mosse che avrebbe fatto l'altro e sapeva che questa volta non era un gioco. Avrebbe vinto chi non avesse sbagliato. Infatti “... fu per forza o per amore che volle incontrare il suo amico campione ...” Così, come ad un appuntamento, si ritrovarono a svoltare al vecchio bivio, loro due soli. Girardengo svoltò lungo l'argine per la volata, l'ultima, fino al traguardo ... il passaggio a livello ... Già, in lontananza, si sentiva l'eco dello sferragliamento della locomotiva. Che notte, quella notte! La luna tirata a lucido, si beava del concerto dei grilli e del frinire delle cicale, che cantavano alla bellezza della vita, consapevoli del loro destino.”

“Ma le cicale friniscono di notte? “ si chiese amleticamente il nostro geometra, mordicchiandosi l’unghia di un pollice.
Dopo averci pensato per qualche secondo, decise che, a quel punto fatidico della narrazione, qualsiasi licenza poetica era lecita e continuò con foga affabulatoria:

“Iniziò così la corsa e, nonostante il fanale fuori uso, riuscii a scansare gli ostacoli. Correvo, ormai alla pari con il fanale, dall'altra parte dell'argine. Avulso dal tempo e dallo spazio, mi pareva di sentire i battiti del cuore del mio avversario, battiti tumultuosi, di passione e di sforzo. Lo sforzo dei muscoli protesi sui pedali … In gioco, adesso, con la vita c'era l'intera posta.”

Il Marcozzi era proprio soddisfatto. Finalmente era riuscito a liberare le parole. Quelle dannate parole che, per anni, si erano rifiutate di approdare sul foglio per saldare un vecchio conto. E ora,come per miracolo, le frasi defluivano, agili e pacificate, simili a un balsamo che lenisce ogni passato rancore.
Il finale era meno glorioso ma, nel suo impietoso realismo, assumeva contorni di drammatico lirismo:

“Sempre appaiati, nessuno voleva O poteva, mollare. In alcuni punti, dove gli argini si avvicinavano, ci sembrava di incrociare l’uno gli sguardi dell’altro. Sempre spavaldo e beffardo il suo … Eppure, forse per una mia speranza, o per la mia strenua volontà di vincere, quella volta scorsi un alone di paura. Paura di perdere. In lontananza si sentivano le grida del resto del branco che si era messo, in ritardo, all'inseguimento, ma ancor più vicino giungeva il minaccioso rumore metallico Già l'acre odore del fumo pungeva le narici. Ma questa volta il lupo era troppo affamato e la volpe lo sapeva.
Giungemmo alla pari sui binari e il raziocinio questa volta ebbe la meglio sull'istinto e sulla disperazione.
Allora, come in un film già visto, sentii l’odore del metallo che stride tra fiammate di scintille, della polvere sulle giacche, dei pantaloni strappati, del sangue delle sbucciature sui ginocchi e sulle braccia. Seguirono pacche sulle spalle, encomi e promozioni, ma di quei giorni ho solo il ricordo di due smeraldi che mi condannavano alla sconfitta finale.

Due giorni dopo aveva saputo che “ il lupo” si era preso la sua rivincita: la brunetta dagli occhi di smeraldo era fuggita con lui a Rimini. E lì, dopo alterne vicende, avevano aperto un chiosco sul quale campeggiava una beffarda insegna: “Il panino del campione”.

Il Marcozzi sbadigliò. Il gruppetto di stelle - comari se ne stava ancora lassù, a commentare con pietosa partecipazione, la sua vicenda ciclistica e umana.



“ Samantha, vuoi deciderti a portare la pratica del Pagnini all’Ufficio tecnico? Se non ci danno il permesso in tempo, finisce che ci mandano i vigili e ci fanno smontare tutto . E poi nessuno mi paga.”
“ Sì, vado, vado ….” gli rispose, svogliata, l’apprendista geometra, mentre finiva di laccarsi un’unghia.

“ E’ possibile che qui lavori soltanto io?” si chiese il Marcozzi, in preda alla più cupa desolazione.
Il cellulare squillò in maniera sgraziata. Il geometra riconobbe il numero e lo spense con un’espressione scocciata: “ Ora basta! Glielo dico che non è più il caso … Non posso passare le mie serate in discoteca. Non ho più l’età! E poi, anche quando ce l’avevo, non mi è mai piaciuto.”
Samantha si lasciò scappare un sorrisino ironico e uscì carica di fogli, sbattendo la porta con un calcio, per non rovinarsi lo smalto.
Il cellulare suonò di nuovo, con insopportabile insistenza.
“ Sì? Olivia … carissima. Tu non immagini quanto lavoro abbia da sbrigare. E poi dicono che d’agosto non c’è nessuno … Figurati, qui c’è una fila che non ti dico. Sì, un minuto … prego, non spingete! Uno alla volta, per carità … Signora, un attimo e sono da lei … Ingegnere, mi aspetti, arrivo immediatamente … Come vedi, bella mia, non ho un minuto di tregua. Il mio nome finirà sicuramente inciso a caratteri cubitali sulla lapide dei caduti sul lavoro. E’ come vederlo! No, tesoro, stasera proprio non posso!. Dove? Al “ Lady Godiva?” Ma, figurati! Non ho quasi più capelli e ho anche un inizio di pancetta. Come faccio a venire al “ Lady Godiva”? E poi ho tanto di quel lavoro da sbrigare … progetti da consegnare … Sai, roba di un certo impegno : pollai tecnologici, pied a terre per avvocati adulteri, ponti mobili sull’ Ombrone … Come? Va bene, d’accordo, sabato prossimo ti accompagno a Mirabilandia. Giuro. Ciao, amore …”
Il Marcozzi non poté fare a meno di darsi dell’autolesionista. Era lucidamente consapevole che questo amore tardivo con una trentenne dalle passioni infantili prima o poi, gli avrebbe compromesso, oltre al conto in banca, anche le coronarie.
Ma ormai sembrava destinato a percorrere fino in fondo la sua discesa, senza freni e con le gomme a terra. Tanto per usare una metafora a lui familiare.



La cappa di afa sembrava intenzionata a non concedere alcuna tregua. Nemmeno quei nuvoloni grigi che sbucavano minacciosi all’orizzonte, facendosi largo dietro le montagne violacee, parevano promettere il conforto di un acquazzone notturno.
Il Marcozzi tirò fuori la bici e si lasciò andare, con un sospiro liberatorio, lungo i tornanti che portavano a valle.
La pianura gli apparve un po’ desolata. Gruppi di pensionati catatonici sedevano pigramente ai tavoli dei circoli ricreativi. L’eco del telegiornale giungeva a intermittenza, mentre il geometra sfrecciava sulla provinciale, incurante delle invettive che, ogni tanto, gli giungevano da qualche frettoloso automobilista che lo sfiorava, “facendogli il pelo” alle ruote.
“ Vai Girardengo, vai grande campione nessuno ti segue su quello stradone …”
Le prime ombre della sera calavano, rasserenanti e materne, a placare le ansie del geometra - ciclista, la cui corsa rallentò all’incrocio, là dove finisce la pianura e incomincia la città.
“ A Candeglia fanno la sagra della frittella unta” ricordò il Marcozzi, che, nonostante la minaccia del colesterolo, nutriva una passione inestinguibile per i dolci, specialmente per quelli fatti in casa.
In un attimo, svoltò a destra e si diresse, con il vento in poppa, verso Candeglia.
E fu all’ingresso del paese, fra nugoli di bambini schiamazzanti e mamme discinte che il destino, ingrato e beffardo, gli venne incontro. E lo sfidò servendosi di una innocua frittella, che il solito bambino disappetente aveva gettato sull’asfalto, calpestando impunemente le norme più elementari dell’educazione civica.
Il Marcozzi sentì la bici farsi più leggera. Quasi inconsistente . Le ruote scivolarono a zig zag sull’unto e, ribelli agli ordini dei freni, andarono a sfasciarsi contro il cassonetto della raccolta differenziata, catapultando il malcapitato ciclista sull’asfalto ancora rovente.



Nell’angusto giardinetto del reparto di ortopedia, il geometra Marcozzi, reduce da un intervento al menisco e da un altro alla clavicola, fissava il fondo della vasca con mesta rassegnazione. Uno squillo stizzoso di cellulare lo richiamò bruscamente alla realtà.
“ Sì, Olivia … oggi sto molto meglio. I medici mi hanno assicurato che in quaranta giorni si risolverà tutto. Poi, con un paio di mesi di fisioterapia, tornerò il leone di sempre … No, cara, non credo proprio che potrò venire con te a Sharm per le feste di Natale. Ma tu prenota pure. Dammi retta, vai con la tua amica Priscilla e magari vi portate anche quel giovanotto sempre abbronzato … Quello con tre campanelle agli orecchi , che gioca a rugby e che quasi non articola parola. Come si chiama? Ah, sì Jonathan, giusto lui. Va bene, Olivia, ci sentiamo presto. Baci, baci …”
Il geometra, contuso ma temporaneamente esonerato dai faticosi impegni sentimentali e lavorativi, tornò a fissare l’acqua torbida e melmosa che si increspava ogni volta che un pesce macilento affiorava alla superficie in cerca di un insetto o di una briciola.
L’odore nauseabondo delle ninfee marcite si mischiava alle esalazioni di disinfettante che provenivano dalle finestre del reparto. Quell’atmosfera di dissoluzione fisica e morale ben si accordava con lo stato d’animo del Marcozzi, che, per natura, era piuttosto incline alle malinconiche meditazioni di matrice decadente.
Per un istante il suo temperamento istrionico gli suggerì un immagine di se stesso abbastanza accattivante: si vide sul palco, vestito di nero, con il cipiglio gasmaniano e il gesto albertazzesco, mentre intonava con voce suadente il suo lamentoso “cupio dissolvi”.
Ma un altro squillo di cellulare lo richiamò improvvisamente alla prosaica realtà. Guardò il numero sul display: era Samantha.
Il Marcozzi esitò un attimo e poi spense il telefonino con un gesto deciso e irrevocabile.
“ Basta con le beghe di lavoro ! Basta con lo stress da prestazione !”
Il suo grido di rivolta si perse nel silenzio. Solo una pantegana, che gironzolava distratta dalle parti del magazzino, si fermò un attimo ad osservarlo incuriosita. Ma subito dopo corse ad infrattarsi nella vicina radiologia.
Fu in quel momento che il geometra- ciclista fece appello alle sue residue facoltà mentali e, contemplando incantato un grosso pesce grigiastro che apriva la bocca verso di lui, si pose lo shopenaueriano dilemma: “ Chissà se anche i pesci scivolano?!”

RECENSIONE DI LUCA MICHELUCCI

Una ragazza inizia il suo percorso verso casa in una qualsiasi sera parigina, immergendosi fra la folla in attesa della metro. Innervosita dal comportamento della gente attorno a lei, la giovane comincia a dare libero sfogo al flusso dei suoi pensieri, che scorrono rapidi nella sua mente, come quel treno che oltrepassa in velocità le varie fermate. La ragazza rievoca così i vari momenti passati col suo Binot, dal primo incontro ai vari appuntamenti successivi, con continui cambiamenti di tono che sembrano accrescere la tensione verso un epilogo tutto da svelare. In questo percorso interiore la mente si sofferma spesso su scene e particolari riportati con un tono ironico e divertito, che allenta così l’attenzione del lettore dal finale della storia. Il racconto si presenta liberato dalla formula tipica del giallo alla quale la scrittrice ci aveva abituato, per dare libero sfogo a una scrittura più intimista, che segue lo scorrere senza argini dei pensieri di un “io” alla deriva, colto nell’atto di riflettere con estrema lucidità su quanto commesso. Il fascino del racconto è dato dalla splendida ambientazione in questa Parigi notturna, che diventa una città della non-appartenenza, scenario ideale dove lasciarsi disperdere nel buio della notte fra il continuo via vai di macchine, autobus e persone sempre di corsa. La ragazza sembra venire inghiottita dalla corrente dei viaggiatori, il suo volto si mischia a quello di gente spesso ai margini, protagonista di tanti incontri casuali, o alle facce “stralunate” che campeggiano sui manifesti pubblicitari, quasi a chiedersi il perché di tutto quello che li circonda. E’ un viaggio verso il buio, che procede negli abissi della mente come nei meandri sotterranei di un metrò, sempre diretto alla perdita di sé, per lasciarsi alle spalle un gesto che appare tanto terribile quanto naturale. Come la mente della giovane sembra vivere un contrasto di emozioni così la città risponde al buio con tutta una serie di elementi che richiamano la luce e quindi la vita. Parigi si presenta come uno scenario convulso di luci e suoni: i fari delle auto che sfrecciano, le insegne colorate della pubblicità, le musiche agli angoli delle strade, tutto rende l’idea di un labirinto metropolitano che richiama l’animo della ragazza contorto e perduto. Suggestiva è l’immagine finale di quel grattacielo dalle molteplici finestre illuminate come le tante celle di un alveare, tutte attaccate insieme eppure separate. Ognuna di queste contiene un’ esistenza propria, tante vite che convergono ogni giorno nello stesso punto, ma che spesso finiscono per non incontrarsi mai. In fondo fra loro forse c’è chi a casa è già arrivato, e si sente finalmente al riparo dal vortice frenetico di quella vita al di fuori.
Nonostante il desiderio di oblio, dal passato non si può scappare; così dall’alto l’improvviso illuminarsi della Tour Eiffel sembra sancire la colpa di quel gesto commesso. Ogni giudizio però sembra rimanere sospeso, e il dubbio finale sulla possibilità di nascondersi in un’ “oscurità brulicante di luci” diventa così il vero enigma della storia.



lunedì 25 agosto 2008

LA VENDETTA DEL POLICARBONATO

Sara' a giorni su http://www.thrillermagazine.it/home/

sabato 2 agosto 2008

Le moules e il léon.

Le moules e il léon.

Lucia si affrettò verso l’entrata della Metro, cercando di farsi largo in mezzo ad una marea umana variopinta e accaldata.
Passò velocemente l’abbonamento nella macchinetta. Le porte di metallo si aprirono come per incanto e lei si diresse meccanicamente verso il binario, in attesa del treno.
Di fronte, sul lato opposto, una giovane suora pallida se ne stava immobile con lo sguardo perso sulle rotaie, compostamente assorta in chissà quali mistici pensieri.
Ad un tratto, comparve barcollando un vecchio clochard con una borsa di plastica piena di stracci. L’uomo farfugliò qualcosa all’indirizzo di un immaginario interlocutore e, infine, si accucciò per terra, con la testa fra le mani e il suo mucchio di stracci poco lontano.
Lucia si accarezzò i lunghi capelli lisci che le ricadevano sulle spalle e che la facevano assomigliare a una madonna rinascimentale o, a scelta, ad una Maddalena subito dopo la redenzione.
L’ espressione affranta dei suoi grandi occhi scuri richiamò per un attimo l’attenzione di un giovane con il cappellino da teppista della banlieue calato sulla fronte. Il ragazzo le gridò qualcosa e si allontanò ridendo sguaiatamente, mentre un anziano viaggiatore , sudato nel suo completo grigio, la urtava con la ventiquattrore, facendole cadere l’impermeabile che teneva sul braccio.

“Ma che avrà da fissare quella pazza? Ehi tu, vai a farti fottere! E lei, perché non fa attenzione a come si muove con quella stupida borsa? Beh, che cosa c’è da guardare? Si vede che mi girano, eh?
Devo averlo scritto in faccia che sono stata piantata da poco. E dire che stavolta ero proprio convinta di avere incontrato uno diverso dagli altri! Era gentile, mi teneva per mano a passeggio lungo la Senna, divideva la birra insieme a me sul Pont des Arts e mi portava a cena dal giapponese. E poi mi parlava di cinema, di arte. di letteratura … Vatti a fidare di questi francesi, delle loro moine, dei loro sguardi da triglia e, soprattutto, delle loro frasi cinguettanti. Un vero tripudio di labiali, nasali, gutturali. O meglio, una sinfonia architettata solo per fregarti. Almeno gli italiani ce l’hanno scritto in faccia che pensano solo a quello . I francesi, invece, no.
Però devo ammettere che sono stata proprio una cretina, anche perché il copione era piuttosto banale, direi addirittura scontato: lo noto subito, davanti all’ambasciata, tutto tirato in cravatta e abito scuro da chauffeur di lusso , mentre aspetta un cliente importante. Lui mi sorride educatamente, lanciandomi uno sguardo quasi timido. Mi saluta in italiano, mi racconta che è stato tre mesi a Roma e via di seguito con la solita manfrina. Epilogo: ci scambiamo i numeri dei cellulari. Così una di queste sere beviamo qualcosa insieme ... Dopo tre minuti esatti mi giunge un SMS. Uno di quelli che ti farebbero sbracare dalle risate se lo mandassero a un’amica. Invece, quando compare sul tuo telefono, ti sdilinquisci in modo inverecondo e mandi a frasi friggere circa un secolo di lotte per l’emancipazione femminile.
Ora, se io fossi stata una ragazza furba, che cosa avrei pensato? Che il giovane discreto con gli occhi verdi e la Mercedes di servizio sotto il culo era niente meno che il principe azzurro in persona, capitato per caso in rue de Varenne, alle cinque di pomeriggio, giusto per rimorchiare la prima stagista italiana che esce in quel preciso istante da quel portone fatale?
Già, ma io non sono mai stata una ragazza furba. E’ evidente”.

Finalmente il treno sbucò sferragliando dalla curva buia. Come si aprirono le porte, la solita fiumana in uscita si riversò addosso a quella in salita. Lucia riuscì a conquistare uno strapuntino in una carrozza di coda , accanto ad una signora grassa che, oltre a straripare dal sedile, ansimava in modo penoso, socchiudendo ritmicamente le palpebre tentate dal sonno.
Mentre il treno ripartiva sussultando, Lucia notò con la coda dell’occhio una ragazza elegante che accarezzava con tenerezza la testolina lucida di un gatto nero, che sbucava da un trasportino appoggiato sul sedile accanto. Ogni tanto lei gli sussurrava qualche parolina rassicurante e l’animale si guardava intorno curioso ma circospetto.
Una voce metallica annunciò la stazione successiva: “Hotel de Ville!” Una ragazza magrissima, che fino a tre secondi prima appariva in trance, totalmente immersa nella lettura di un libro, si scosse repentinamente, catapultandosi fuori. Fu immediatamente inghiottita dalla corrente dei viaggiatori. La signora grassa sbuffò e si rimise a dormire.

“Mi sono sempre piaciuti i gatti neri. Quello poi assomiglia tanto al mio Fumino … Chissà se sente la mia mancanza?! Immagino come lo vizieranno mamma e papà, ora che io sono lontana.
Se sapessero come mi sono fatta prendere in giro da Benoit … E’ meglio che non lo sappiano.
E dire che mamma me ne ha fatte di prediche, prima di partire. E papà non la smetteva più di ricordarmi che, se avessi cambiato idea, anche all’ultimo momento, un posto in banca lui me lo avrebbe potuto ancora trovare.
Oddio, ora questa qui si mette anche a russare. Come se non bastasse questo tanfo insopportabile di carne umana e di disinfettante da latrina. Uffa, ancora nove fermate. Un’eternità… ”

Lucia accavallò le gambe, inciampando nel trolley di un turista intento a consultare la cartina della Metro. Un bambino odioso incominciò a strillare contro la mamma che gli aveva strappato di mano il superliquidator , con il quale aveva già provveduto a inondare la sgargiante tunica di una matronale signora di colore, che, peraltro, continuava a oscillare imperturbabile, appesa ad una maniglia .
Lucia fissò lo sguardo fuori dal finestrino, assaporando l’odore acre del sottosuolo, mentre le pareti umide e scure della Metro scorrevano monotone, alternandosi a facce stralunate che gesticolavano da giganteschi manifesti pubblicitari.

“Provati a bagnare me e due ceffoni non te li toglie nessuno!
Vedi, Benoit, io non ce l’ho con te perché mi hai mollato. Quello che mi ha ferito è stato il modo in cui lo hai fatto. Un modo … squallido. Sì, squallido è proprio il termine giusto!
Io capisco che uno possa stancarsi e che abbia voglia di farla finita. D’accordo. Ma perché raccontarmi un mucchio di bugie? Perché fissare tutti quegli appuntamenti per poi disdirli all’ultimo minuto con scuse puerili o addirittura idiote?
Scusa, Benoit, che male c’era a dirmelo subito che volevi soltanto divertirti? Magari poteva andare bene anche a me, non ti pare? Mia nonna diceva sempre : “Dove c’ è gusto, non c’è perdenza”. Invece, hai finto di metterci di mezzo i sentimenti. E questo non te l’ ho potuto perdonare! Quando mi tornano in mente tutti quei complimenti sussurrati a mezza voce: “ Ma belle italienne, ecc.ecc.ecc.” mi viene una rabbia che non puoi immaginare. Nemmeno nei film con Hugh Grant! Ma come ho fatto a crederci? E le cene nel Marais da quei tuoi amici gay? E i pomeriggi a sfogliare i libri di architettura al Boubourg? E che dire di tutte quelle camminate sotto la pioggia lungo rue Rivoli, mentre mi sussurravi tutte quelle frottole con una voce più sensuale di quella di Alberto Lupo, quando duettava con Mina: “Parole, parole, parole, soltanto parole …”
Però, devo ammettere che in quel mese in cui ci siamo frequentati, ho imparato più francese che in un anno di “ Alliance ”… Sul piano culturale, mi hai dato un bel contributo. Su quello della galanteria, sei decisamente senza rivali . Su quello della tenerezza sei addirittura imbattibile!
Su un altro piano, invece, devo confessarti che mi hai sempre suscitato qualche perplessità .
Specialmente dopo quella sera in cui ti sei presentato con quei boxer con gli orsetti su sfondo arancione. Ti giuro che io uno con delle mutande simili non l’avevo mai frequentato!
Diciamocelo pure: l’abbigliamento è stato il meno. E’ stato tutto il resto ad essere deludente ...
Ma, d’altra parte, io sono un tipo che bada ai sentimenti. E tu l’avevi capito subito, non è vero? E te ne sei approfittato. Specialmente quando mi incantavi con gli scrittori emergenti del sud est asiatico o con i giovani cineasti del Maghreb.
Allora il gesticolare sinuoso delle tue mani mi faceva dimenticare anche gli orsetti su sfondo arancione.
D’altra parte, i bagliori sensuali dei tuoi magnetici occhi verdi compensavano ampiamente la tua eccessiva propensione ad addormentarti ogni volta che ti invitavo nella mia caotica stanza di Pigalle, al quinto piano, senza ascensore.
Ti giuro che ti avrei perdonato anche questo, se soltanto tu non mi avessi illusa in maniera così proditoria!
Lo sai che per cucinarti le cotolette alla milanese, ho unto tutte le piastrelle della cucina? Ti ho aspettato fino a mezzanotte e un quarto. Ma tu non sei venuto. E non hai avuto nemmeno il buon gusto di avvertirmi.
Il giorno dopo, il mio coinquilino Nicola, che oltre ad essere schizzinoso è anche vegetariano, mi ha guardato con disgusto e non mi ha parlato più per una settimana. Non so se a causa della cucina profanata o delle cotolette!
Ancora due fermate e sono arrivata. Stasera sono proprio distrutta. E, oltre ad avere il cuore infranto, mi fanno male anche i piedi. ”


Il treno si fermò sussultando. La porta si aprì e Lucia si catapultò fuori respirando l’aria umida e ferrosa del binario.
Mentre percorreva il lungo cunicolo che portava all’uscita, il ticchettio dei suoi tacchi si confondeva sinistramente con la musica di un sax che si perdeva, languido e insistente,nei labirinti del sottosuolo.
Fu mentre si affrettava a superare un giovane nero, con i muscoli lucidi da dio greco e un vistoso orecchino d’oro che il suo sguardo si posò sulla pubblicità di una nota catena di ristoranti.
Nel cartellone gigantesco, una giovane donna con le labbra voluttuosamente spalancate, assaporava delle cozze dall’aspetto decisamente invitante. Sullo sfondo una scritta ambigua e ammiccante: Quand Rose mange ses moules alla plancha, elle divient complétement léon.

“Ecco, anch’io ho fatto come Rose. Un’altra volta impari ad invitarmi a pranzo, a illudermi e poi a liquidarmi in quel modo … E bravo, Benoit! Avresti dovuto saperlo che le moules fanno quell’effetto. E non solo su Rose!
Erano eccellenti le cozze marinate, con quel sughetto che sapeva di curry e di non so quali altre spezie. Sarà stato per quel sapore piccante … O forse per la delusione che mi bruciava dentro?
Il fatto sta che, quando siamo usciti dalla brasserie e ci siamo avviati sulla tua lucente Mercedes di servizio verso il bois de Boulogne, la fiamma di calore mi era salita dallo stomaco fino al cervello. Dopo un quarto d’ora ti sei fermato e siamo scesi, inoltrandoci nel bosco, senza scambiarci una parola. Ad essere sinceri, quel tuo sorrisetto ipocrita da manichino senz’anima, era più eloquente di qualsiasi spiegazione. E io non avevo più voglia né di ascoltarti , né di guardarti in faccia mentre mi prendevi in giro così impunemente.
Così, mentre eri intento a interpretare l’ultima scena ( sai, quella della romantica passeggiata d’addio?)ho pensato che mi ero stancata di recitare con te quella specie di parodia di “Casablanca”. D’altronde tu non avevi certamente la stoffa di Humprey Bogart. E nemmeno il suo fascinoso impermeabile! Così, giunti sulla riva di un ameno laghetto, la mia proverbiale passionalità italica è esplosa in tutta la sua viscerale violenza. Mi dispiace Benoit ma come potevo immaginare che tu, così atletico , non sapessi nuotare?
Quando ti ho spinto nelle acque stagnanti del laghetto e sei scomparso nella melma, chissà se hai continuato a sorridere?! Peccato che ci fossero tutti quegli insetti che pizzicavano l’acqua verdognola e maleodorante! Poi ho attraversato in fretta la strada . Giusto per prendere al volo il 244. Mi sono girata solo un attimo. Il tempo di scorgere tutti quei corvi che disegnavano un cerchio scuro nel cielo sopra lo stagno …

Lucia accelerò il passo e incominciò a salire le scale.
Quando sbucò dalla Metro era già notte. Il cielo, striato da qualche nube allungata,si era tinto del colore del lapislazzulo. A sinistra, il nastro brulicante di auto della Peripherique si snodava in mezzo a una miriade di luci. Accanto alla pensilina dei bus un enorme cartellone luminoso pubblicizzava il Festival Paris cinema 2008 .
Lucia alzò i suoi grandi occhi scuri verso il grattacielo dell’Hotel Concorde – Lafayette che si stagliava nell’oscurità, con decine di finestre illuminate simili alle celle di un immenso alveare.
Laggiù, oltre le finestre dei palazzi protetti da eleganti inferriate, la punta della torre Eiffel si accese all’improvviso. Lucia fece cenno all’autista e salì mostrando l’abbonamento. Poco dopo il bus fu inghiottito dall’oscurità brulicante di luci di Porte Maillot.

lunedì 30 giugno 2008

L’ ultimo Eurostar per Anna K.


L’ ultimo Eurostar per Anna K.

La luce del crepuscolo si rifletteva sul ferro rovente dei binari. La stazione di Vernio – Montepiano – Cantagallo era avvolta da una coltre di afa che sfumava laggiù in lontananza, verso l’imbocco della galleria, dove una leggera brezza scuoteva le chiome degli alberi protese sulla cavità oscura della montagna. Un odore acre di freni consumati si confondeva con l’umidità stantia, evocando immagini di viaggio perdute nel passato.

La giovane donna che sbucò timidamente dal cancello della stazione sembrava proprio una viaggiatrice di altri tempi. Indossava un abito chiaro di foggia ottocentesca e portava uno strano cappellino con la veletta di pizzo rialzata, che lasciava scoperti gli occhi straniti. Occhi profondi, intenti a scrutare le pensiline deserte con l’espressione smarrita di chi si ritrova in un mondo estraneo.

Dopo aver rivolto uno sguardo perplesso in direzione delle scale del sottopassaggio, si sedette finalmente su una panchina, a poca distanza dalla linea gialla che separava il marciapiede dalle rotaie.

I due uomini che arrivarono poco dopo, armati di telecamera e di macchina fotografica, la osservarono incuriositi, mentre tirava fuori da una borsa di seta rossa un libro elegantemente rilegato.

“Secondo te, quella viene da un set cinematografico o è fuggita da una clinica per malattie nervose?” , chiese ironicamente quello dei due che sembrava risentire di più del caldo torrido, almeno a giudicare dalle larghe chiazze di sudore che gli bagnavano la camicia da informatore scientifico in libera uscita .

Il suo compare, un noto medico della zona appassionato di modellismo ferroviario, era troppo intento a fotografare un carro soccorso giallo accantonato oltre i binari. Si limitò a rispondergli con un “bah … “ distratto. Ma subito dopo, non poté fare a meno di posare anche lui lo sguardo su quella figurina esile, che leggeva sulla panchina, tutta assorta in chissà quali pensieri.

L’amico attraversò il binario, incurante del vistoso cartello di divieto. Si rimboccò le maniche della camicia ed emise un sospiro liberatorio “ : Se non ci fosse il sabato pomeriggio per ritemprarsi un po’ in stazione, la mia esistenza sarebbe priva di senso ... Ieri è stata una giornata terrificante - sbuffò detergendosi con un fazzoletto di carta il sudore della fronte - ho visitato tredici medici di base e ogni volta che mi infilavo furtivamente nell’ambulatorio davanti a schiere di vecchietti in attesa, ho rischiato il linciaggio. Uno di questi giorni mando a quel paese il capoarea e tutta la Ditta, mi chiudo nel dopolavoro ferrovieri di Prato e mi lascio morire di inedia, contemplando il plastico della Direttissima. Almeno così finisco in bellezza …”

Smettila di fare il tragico ! Pensi forse che io mi diverta a lavorare? Però, quando vedo una 740, tutta nera e lucida , che sbuffa vapore , con quei respingenti che sembrano vivi … allora sento che, sì, vale la pena … Dai,spostati da lì, altrimenti , quando passa il merci, mi impedisci la visuale .” ribatté il dottore, lisciandosi voluttuosamente il baffo brizzolato, mentre cercava la postazione migliore per la videoripresa.

All’improvviso uno scalpiccio di sandali ruppe il silenzio, disturbato soltanto dal monotono frinire delle cicale e dallo scroscio dell’acqua del vicino Bisenzio . Due bambini in canottiera irruppero vociando sul marciapiede, seguiti da un giovanotto in bermuda che li apostrofò seccato: “ Duccio, Matteo … fatela finita!” Ma i due non sembravano intenzionati a obbedire. Il più piccolo, un biondino di circa tre anni, incominciò a girare correndo intorno alla panchina sulla quale sedeva la signora, tutta assorta nella lettura , visibilmente incurante del caldo . Ad un tratto il più grande dette una spinta al fratello e lo fece cadere per terra. Il bimbo incominciò a strillare, più di rabbia che di dolore, mentre l’altro rideva sguaiatamente.

La sconosciuta alzò lo sguardo, posò il libro sulla panchina e si chinò sul bimbo che piangeva. Poi allungò verso di lui una manina inguantata e lo carezzò sul viso con un gesto pietoso. L’uomo in bermuda sembrava furioso: “ Duccio , accidenti a te! Ecco, lo sapevo che gli facevi male … Vieni qui che ti sistemo io con un bel manrovescio .Così tu impari a dargli noia …” .

Matteo si rialzò , gratificato dall’appoggio paterno. Guardando spavaldamente il fratello con un sorrisetto vendicativo.

Frattanto la signora , con uno sguardo di indulgente tenerezza, si era nuovamente seduta, immergendosi nella lettura, simile ad un’ immobile statuina di gesso, di quelle che ornano, silenziose, i parchi di certe ville di campagna.

All’’improvviso, il suono ossessivo di un campanello interruppe la corsa dei bimbi. Matteo si portò le manine agli orecchi. Duccio tentò, invano, di fargli lo sgambetto ma il fratello lo evitò con una mossa fulminea. Così, il piede di Duccio andò a colpire il treppiedi che il fermodellista dal baffo brizzolato aveva puntigliosamente predisposto vicino al binario. Il rumore sordo del cavalletto, unito alla esclamazione irripetibile del proprietario, fu immediatamente sovrastato da una minacciosa voce metallica : “ Attenzione, treno in transito al binario 3 . Allontanarsi dalla linea gialla!”

La signora si alzò di scatto. Si guardò intorno come un automa e abbandonò il libro sulla panchina, accanto alla borsetta di seta rossa.

E fu in quell’istante che, laggiù in fondo, dal buco oscuro che si perdeva nella montagna, apparve il muso a forma di biscia di un treno grigio, con una striscia verde sulla fiancata. L’ETR 500 sfrecciò rapidissimo, senza fermarsi.

Mentre si dissolveva sui binari, ingoiato dal verde dei tigli, il fermodellista dal baffo brizzolato indicò all’amico il cappellino con la veletta di pizzo che rotolava sulla massicciata. L’informatore chiuse gli occhi per non guardare. Fu solo un attimo. Quando li riaprì non vide né sangue, né frammenti di vesti miste a pelle sparsi sulle rotaie . La signora pallida era scomparsa, come dissolta nell’aria che sapeva di ferro e di tiglio …

“ Ma dove è finita quella là? – si chiese il dottore.

Sulla panchina erano rimasti soltanto la borsa di seta rossa e il libro aperto all’ultima pagina. I due amici si avvicinarono timorosi. L’occhio curioso dell’informatore si posò subito sulle righe finali: “ E a un tratto, ricordando l’uomo schiacciato il giorno del suo primo incontro con Vrònskij, capì che cosa le restava da fare. Discesi con passo rapido e leggero i gradini che andavano dall’idrante alle rotaie, si fermò davanti al treno che le passava accanto. Guardò in basso i vagoni, le viti, i ferri, le alte ruote di ghisa … E la candela alla cui luce aveva letto un libro pieno di ansie, di inganni, di dolore e di male , avvampò di una luce più vivida che mai, le illuminò tutto quello che prima era oscurità, crepitò, cominciò a offuscarsi e si spense per sempre.”

Il dottore si lisciò il baffo, perplesso: “ Ma che diavolo leggeva?” e chiuse il volumetto per vedere il titolo.

“ Ah … gli fece eco l’informatore con aria saputa – si tratta di quel romanzone russo, ecco, sì … “Anna Karenina” , quella che viene piantata dall’amante e si butta sotto il treno. Se non sbaglio, ci hanno fatto anche un film con Greta Garbo … “

“Accidenti … - esclamò l’amico come colpito da un’idea assurda – ma allora quella donna …”

Nessuno dei due ebbe il coraggio di aggiungere altro. Si avviarono in silenzio verso l’uscita della stazione. Poco prima della galleria il semaforo rosso faceva la guardia, impassibile, al cappellino con la veletta di pizzo che si era andato a fermare proprio davanti al carro soccorso.

Le cicale continuavano nel loro assordante frinire, accompagnato soltanto dallo scroscio monotono del Bisenzio.

martedì 17 giugno 2008

Eros e Thanatos

E' stato pubblicato sull'ultimo numero della rivista "Thriller magazine"
http://www.thrillermagazine.it/racconti/6558/1

sabato 17 maggio 2008

I CALZARI DELL’ABATE GIOACCHINO

La ricerca delle radici non è un viaggio turistico che qualsiasi tour operator può organizzarti in poco tempo, per una modica cifra, tutto compreso nel “pacchetto vacanze”.
Per esperienza personale, posso affermare che si tratta di un viaggio difficile. Per certi aspetti anche sconvolgente.
Non la pensavo così una mattina di fine luglio, quando, ormai stanco delle folte schiere di parenti e dei loro interminabili pranzi, decisi che era giunto il momento di ripercorrere le strade sulle quali mio nonno, e i suoi avi prima di lui, avevano camminato, appesantiti dal loro fardello di fatica e di rassegnazione.
Ero infastidito dal clima troppo folkloristico delle feste paesane ma anche dagli sguardi indifferenti dei passanti che non mi conoscevano più.
Inoltre l’odore dei vicoli, stretti fra i muri di pietra grigia, non era più quello delle lunghe giornate oziose che trascorrevo da bambino, quando mi rifugiavo sul balcone di casa mia e aguzzavo lo sguardo in fondo all’orizzonte, verso il mare, nella speranza di intravedere il bagliore lontano del faro di Punta Stilo.
Ora, che ho percorso decine di autostrade e sono salito su tanti treni, non è facile ripensare alle stagioni della mia infanzia, quando il mondo mi appariva circoscritto fra la piazza e il ciglio della strada e quando, alle prime ombre della sera, una sensazione di profonda mestizia mi entrava nell’anima. In quei lunghi pomeriggi pensavo con rimpianto a quello che mi aspettava fuori dal quel nido che mi teneva prigioniero.
Quella mattina d’estate, pur consapevole di non poter più riallacciare molti dei legami che avevo reciso, salii in macchina e mi diressi verso il paese di mio nonno.
Per strada, con la musica della radio in sottofondo, mi sentivo quasi euforico.










Il pensiero di scoprire un indizio che mi riconciliasse con quel mondo, che non sentivo più mio, mi inebriava e mi incuriosiva al tempo stesso.



Qualche giorno prima, mentre sorseggiavo un caffè in un bar del paese, avevo incontrato un compagno di scuola, tale Mico, che non vedevo da almeno trent’anni.
Per dire la verità, non lo avevo riconosciuto, un po’ perché era invecchiato,un po’ perché la mia mente aveva consapevolmente rimosso molte facce della mia infanzia.
Fra un “ti ricordi e l’altro”, il discorso era scivolato sulla mia famiglia e, a un certo punto, Mico mi aveva chiesto: “Ma tu ci sei mai stato a Carlopoli? Lo sai che là ci sono diverse persone che portano il tuo cognome?”
Ammisi di non essermi mai interessato agli abitanti di Carlopoli. Anzi, a pensarci bene, non ci ero nemmeno mai stato.
“Perché non ti fai una passeggiata nella Sila piccola e non vai a dare un’occhiata al paese di tuo nonno? C’è l’aria buona e c’è anche un’abbazia antica che sta tutte le guide turistiche. O meglio, ci sono le rovine. Chiedi di Corazzo... Guarda, se vuoi, ti metto in contatto con un mio amico che lavora all’ INAIL e che conosce ogni pietra della zona. Ha scritto anche dei libri di leggende popolari. E’ una persona squisita, un vero signore. Ecco, guarda, scriviti il suo numero di cellulare e chiamalo a nome mio. Gli farà piacere scambiare quattro chiacchiere…”



Vitaliano Talarico era mio coetaneo e quando ci incontrammo, fuori dall’edificio dell’INAIL di Catanzaro, faceva un caldo infernale.
Aveva la camicia intrisa di sudore e mi strinse la mano, mentre con l’altra si sventolava con una copia spiegazzata della “Gazzetta del Sud”.
Poco dopo, davanti a una granita con brioche, ci mettemmo a



nostro agio e incominciammo a parlare.
Un grosso ventilatore sul soffitto emanava una gradevole sensazione di refrigerio.
Vitaliano Talarico mi dette subito l’impressione di una persona riservata ma socievole . Mi raccontò che aveva studiato Filosofia a Roma, che si era laureato abbastanza presto e che aveva fatto una scelta coraggiosa: era ritornato al suo paese.
Mentre parlavo, lo osservavo senza farmi troppo notare. La sua non era una cortesia formale e aveva modi eleganti . Direi che faceva venire in mente uno di quei gentiluomini dall’aspetto un po’ borbonico, che un tempo passavano le giornate, fumando con indolenza, seduti ai tavoli dei caffè del corso …
Ci rendemmo subito conto, a pelle, di aver vissuto molte esperienze giovanili comuni. Parlavamo lo stesso linguaggio, ma non so perché non ci venne fatto di darci del “tu”.
“Dunque lei ha studiato a Firenze...” osservò Talarico, fissando le palme della piazza, che si intravedevano attraverso i vetri sporchi del bar.
“ Diversi anni fa, conobbi una ragazza di Firenze. Ci venivo spesso. Quante passeggiate sui Lungarni o lungo il viale che porta al Forte Belvedere…”, aggiunse subito dopo, con un lieve sospiro che sapeva di rimpianto.
“ Lei si è pentito di … essere tornato?” gli chiesi a bruciapelo. Ma in quello stesso istante mi pentii della domanda indiscreta e forse un po’ troppo confidenziale.
Il mio interlocutore non ci fece caso, o perlomeno non sembrò offeso. Mi guardò con i suoi occhi scuri e si lisciò i baffetti brizzolati: “Lei non ci crederà, ci sono dei momenti in cui rimpiango la vita di allora, i viaggi, gli incontri, l’impegno politico, le occasioni culturali … ma, in altri, sento come un bisogno irrefrenabile di rimanere qui. Non so se mi capisce, voglio dire che mi piace camminare lungo il corso affollato, fermarmi a comprare i mustazzoli alla bancarelle… Devo ammettere anche che mi piace troppo inveire contro il traffico anarchico e respirare quest’aria levantina che mi invita a non affannarmi troppo, perché tanto le stagioni continuano a scorrere sempre uguali, sia che io




le preceda, sia che le insegua …”
“Già”, concordai con lui “ qui i ritmi sembrano tanto più lenti che a Nord. Ogni volta che torno mi stupisco della mia inutile frenesia, della mia efficienza esagerata …”
“Guardi bene, il mio non vuol essere il solito fatalismo rassegnato di certi intellettuali meridionali, quanto piuttosto un recupero di quella saggezza antica che i filosofi della Magna Grecia dispensavano ogni giorno nelle strade e nelle piazze …”
E qui Vitaliano sorrise di nuovo, come se si volesse prendere garbatamente in giro, o come se temesse che le sue parole, inconsapevolmente eloquenti, fossero prese troppo sul serio.
“Ma non credo che le interessino le mie elucubrazioni di oscuro cantore delle tradizioni calabresi. Mi scusi se l’ho annoiata con i miei discorsi. Lei voleva sapere qualche notizia su Carlopoli…”
“ Non mi annoio affatto. Anzi, le assicuro che i suoi discorsi mi interessano molto … Eccome se mi interessano!” , lo rassicurai. “ Più che altro vorrei andare a fare un giro verso Castagna, che è vicina a Carlopoli. Mio nonno era di là … o meglio c’era nato, perché a nove anni , aveva preso un bastimento ed era arrivato in America , proprio come un pacco postale, che i fratelli maggiori avrebbero dovuto ritirare, una volta arrivato. Invece, se lo dimenticarono e lui, dopo il periodo di quarantena, pensò bene di arrangiarsi da solo e di sopravvivere portando l’acqua agli operai che costruivano la ferrovia. Così passò, senza apparenti traumi, dalle fiumare della Sila piccola alle praterie del Far West. Quando tornò al suo paese, con il revolver alla cintura, era un uomo fatto. Uno di quelli che non deve mai chiedere niente a nessuno.”
“E a lei è venuta la curiosità di riscoprire le sue radici.”, osservò Vitaliano accendendosi una sigaretta, “E’ naturale che uno, arrivato a una certa età, abbia voglia di ricordare il proprio passato …”
“Vuol dire che si ritorna indietro perché si invecchia?”
“Può darsi …” azzardò Talarico, avviandosi verso il banco per pagare.
Detti un tacito saluto al ventilatore che continuava a girare sul soffitto e uscimmo insieme dal bar, tuffandoci di nuovo nella canicola, che odorava di rosmarino e di asfalto.
Dopo aver memorizzato le istruzioni del viaggio, che Talarico mi


dette con estrema precisione, lo ringraziai e risalii in macchina, inveendo contro un motocarro che mi ostruiva il passaggio. E anche contro il solito vigile, che, invece di dirigere il traffico, se ne stava comodamente a chiacchierare con un fruttivendolo, ignaro e indifferente di fronte al caos di quel che restava della Magna Grecia all’ora di punta.



Uscendo da Catanzaro, mentre percorrevo il viadotto Bisantis, mi venivano in mente i resoconti di alcuni viaggiatori stranieri del ‘700, che descrivevano la zona come un luogo impervio e selvaggio.
Il ponte, il più alto d’Europa ad una sola arcata, simile a un lucido ottovolante sulla Fiumarella , emanava bagliori accecanti nel riverbero del mattino.
Mi misi a fischiettare , aprii il finestrino e presi la strada che doveva portarmi fino a Castagna.
Arrivai in paese verso le undici. Un paio di vecchi, seduti fuori da un bar, mi guardarono curiosi e insospettiti. Avevo caldo ed entrai a bere una limonata. Su una mensola di legno stavano allineate delle cartoline in bianco e nero. Ne presi in mano una e lessi sul retro i versi di una certa Palmira Fazio Scalise : “Da Citeaux trasse, glorioso, il nome di Cistercense, poi che l’abbazia primiera sorse fra le solitudini nude e silenti…” L’aveva detto Mico che a Castagna c’erano tanti che si chiamavano come me, ma non avrei mai creduto di avere antenate così ispirate ed auliche. In compenso, io non avevo ereditato nessuno spirito poetico.
Anche la ragazza che stava al banco sembrò stupita di vedere un forestiero e, quando le chiesi quanto fosse distante l’abbazia, si limitò a rispondermi in maniera abbastanza vaga, facendomi intendere che era poco lontana.
Così pensai di fare due passi e di raggiungerla a piedi. Fu una






cattiva idea perché, per arrivare alle rovine dell’abbazia, dovetti farmi un paio di chilometri sotto il sole, lungo una strada polverosa e piena di mosche.
Ma ne valeva la pena. Quando intravidi le mura di Corazzo, ricoperte da un folto tappeto di rampicanti, che si stagliavano contro il cielo, mi sembrò di trovarmi di fronte a uno scorcio di presepe. Uno strano e silenzioso presepe estivo, immerso nel verde della valle del fiume Corace.
Stanco e sudato, mi sedetti su un masso che sporgeva dal terreno e seguii con lo sguardo una lucertola che correva ad infrattarsi in una crepa del muro.
Il silenzio era totale, interrotto soltanto dal frinire delle cicale.
Mi alzai, un po’ rinfrancato dopo lo sforzo della camminata, e incominciai a gironzolare fra le rovine, passando attraverso le fessure più larghe e osservando i torrioni abbandonati.
Se ci ripenso, a distanza di tempo, quel paesaggio irreale mi trasmette ancora un gran senso di inquietudine.
Ad un tratto mi venne un’ inspiegabile voglia di fuggire ma, mentre ritornavo sui miei passi, avvertiii un leggero fruscio alle mie spalle, come se un animale fosse passato fra le piante.
Mi girai di scatto e lo vidi con la coda dell’occhio: era un monaco anziano, che si avvicinava con passo quasi scattante, abbastanza insolito per la sua età avanzata. Sembrava comparso dal nulla. Si avvicinò a me, mi squadrò con l’occhietto furbo e, infilata una mano nel saio sdrucito, ne tirò fuori un pezzo di pane.
La sorpresa mi impedì di chiedermi che cosa ci facesse un frate fra quelle rovine. Lui sembrò quasi leggermi nel pensiero. Con un gesto rapido mi mise il pane sotto il naso e mi sussurrò con un filo di voce: “ Fratello, vuoi mangiare un po’ di pane dell’abbazia? Non ne abbiamo molto ma non ne neghiamo a nessuno, né ai pecorai che scendono da Scigliano, né ai porcari che vengono dalle valli del Savuto. Il Corace dà da bere a tutti e noi pensiamo al mangiare …”
“No, grazie, ho già fatto colazione.”, gli risposi un po’ impacciato.
Il frate sembrò deluso ma aveva voglia di parlare e osservò: “ Tu



sei straniero, fratello. Non ti ho mai visto da queste parti. Un tempo i visitatori erano tanti ma da quando non c’è più l’abate Gioacchino, si vedono sempre meno cristiani…”
Gli occhi del vecchio sembravano animati da un fervore di altri tempi. Mi prese la mano e, sorridendo estatico, scoprì le gengive sdentate.
“ Lo sai che quando c’era lui, l’abbazia era una delle più ricche? Lui amava questo posto … Figurati che andò anche a Palermo da re Guglielmo per difendere i diritti del monastero e per farlo accogliere nell’ordine cistercense. Ma tutti quei baroni non volevano che S.Maria di Corazzo possedesse tante terre e lo hanno sempre fatto tribolare con la loro avidità. E pensare che lui non si voleva occupare dei beni materiali . Quando era con noi, Gioacchino pensava solo al mistero della Trinità e profetizzava l’avvento dell’età dello Spirito... ”
Il vecchio si mise in bocca il pane che avevo rifiutato e incominciò a masticarlo con i pochi denti che aveva in bocca. Si capiva che faceva una gran fatica.
Possibile che fra tanti abitanti della zona fossi incappato proprio nel pazzerello del villaggio? Il suo sguardo da esaltato e gli strani discorsi che faceva dimostravano chiaramente che il poveretto non ci stava più tanto con la testa.
Comunque, era un tipo socievole e, a modo suo, anche simpatico.
Tanto per non sembrare scortese, decisi di assecondarlo: “ Scusate, ma dov’è ora il vostro abate?”
“Ah, già, tu sei straniero. Altrimenti sapresti che l’abate Gioacchino se n’ né andato via da qui. E’ partito insieme a Raniero. Pare che si siano rifugiati in Sila, fra il Neto e l’Arvo, in un posto sperduto, in mezzo ai lupi …” , soggiunse con un gran sospiro.
“ Si vede che aveva altro da fare .”, osservai tanto per dire qualcosa.
Il vecchio parve offeso dalle mie parole e mi riprese con un’espressione severa, quasi di rimprovero: “ Come sarebbe a dire? Noi gli volevamo bene e lui era contento di dividere il pane e l’acqua con noi. Nessuno lo disturbava nel suo lavoro. Se ne stava sempre a studiare





le Scritture e a dettare le sue opere a Luca …”
“ E chi sarebbe questo Luca?”
Il frate mi guardò come si guarda un marziano: “ Ma come, non hai mai sentito parlare di Luca Campano? E’ lui che gli faceva da amanuense. E’ a lui che l’abate ha dettato il libro dell’Apocalisse.”
A quel punto mi sembrò che il colloquio con quel frate bizzarro fosse durato anche troppo . Feci il gesto di salutarlo. Ma lui non aveva ancora voglia di lasciarmi andare.
“ Io lo so perché è dovuto fuggire … Però, prima di andarsene mi ha voluto lasciare un ricordo . Guarda, figliolo, che cosa mi ha regalato l’abate …” E il vecchio, tutto ispirato, si chinò per toccarsi ambedue i calzari consunti e ricoperti di polvere.
Mentre lo guardavo perplesso, si mise a ridacchiare. Poi, tornato improvvisamente serio, mi apostrofò con il dito alzato, come per ammonirmi: “ Tu non ci credi che Gioacchino mi abbia lasciato i suoi calzari, eh? Lui mi disse che non ne aveva più bisogno e che sarebbe ripartito a piedi scalzi. Tu, invece, dovresti smetterla di guardarmi con codesta espressione da miscredente …” Non feci in tempo a rispondergli che il vecchio scomparve con un balzo fra le rovine, con la stessa rapidità con cui era apparso poco prima.
L’idea di tornarmene a piedi fino al paese mi faceva venire i crampi allo stomaco.
Forse avevo anche fame. Ma non c’era altro da fare che rimettersi in marcia.
Mentre camminavo sul ciglio della strada, sotto il sole di mezzogiorno, mi detti mentalmente dello stupido. Ero partito per visitare il paese di mio nonno ed ero finito in mezzo a un mucchio di sassi roventi a ragionare con un vecchio pazzo vestito da frate.
Almeno avessi incontrato un’anima viva per chiedergli dove potevo andare a mangiare!
Mi misi così ad inveire ad voce alta, senza che nessuno mi potesse dare una risposta: “ Perché in questo maledetto posto non conoscono le mezze misure? Gli automobilisti sono sempre dove non devono essere: in fila agli incroci, in divieto di sosta, controsenso … Mai che ce ne sia uno dove deve essere!”
Sembrò che avessi espresso il desiderio al genio della lampada di Aladino, perché proprio in quel momento, dalla curva alle mie spalle, sbucò un pesante fuoristrada, che per poco non mi prese in pieno. E, come da copione, appena mi ebbe superato, l’auto si fermò con un assordante stridio di gomme.
“ Volete un passaggio?” La ragazza affacciata al finestrino sembrava intenzionata a rivestire i panni della Donna della Provvidenza. Non mi lasciò nemmeno il tempo di rispondere. In un attimo salii sul sedile davanti, proprio accanto a lei, che, dopo avermi squadrato per benino, giunse ad un’originale conclusione: “Voi non siete di qui, vero?”
La mia salvatrice doveva avere circa venticinque anni. L’età di mia figlia.
Mi sentii un po’ imbarazzato e cercai di chiarire la mia posizione. Se mi avesse visto mia moglie, forse avrebbe avuto qualcosa da ridire, se non altro perché la guidatrice del fuoristrada era una gran bella ragazza. Una di quelle che non puoi nemmeno definire sfacciata, perché i suoi modi confidenziali risultano talmente spontanei da sembrare innocenti.“ Mi dispiace disturbarla …”incominciai timidamente.
“Ma quale disturbo?! Volete morire per un’insolazione? Fra due minuti siamo in paese. E’ lì che avete la macchina, vero?”
“ E lei come lo sa?”
“ Vi ho visto quando siete arrivato, solo, solo e avete parcheggiato nella piazza in divieto di sosta. ”
“ Lei abita a Castagna?”
“Io? Per carità! Ci vengo in vacanze, da mia nonna. Io sono di S.Giovanni , il paese di Gioacchino da Fiore. Lo conoscete?”
Di nuovo, con questo Gioacchino! Sì, mi ricordavo vagamente di questo personaggio. Ne parlava anche Dante nel Paradiso. E una volta, da bambino , mio padre mi aveva portato a San Giovanni in Fiore, a vedere la tomba di questo frate, in una cripta buia . Quella volta, per la verità, mi ero divertito di più a viaggiare sul trenino delle Calabro Lucane che a visitare la chiesa.
“Ecco, siamo arrivati”. La ragazza sgommò di nuovo e si fermò






davanti all’ultima casa della piazza. Quando scese dal fuoristrada, non potei fare a meno di notare che aveva una gonna molto corta e un paio di gambe decisamente apprezzabili.
“ Se volete favorire, mia nonna ha sicuramente preparato il pranzo e vi assicuro che cucina sempre per un reggimento.”
Esitai accanto alla portiera aperta. Mi sembrava poco educato accettare quell’invito, senza nemmeno essermi presentato. Inoltre quella ragazza era proprio imprudente . Non solo osava dare passaggi agli estranei per le strade deserte ma aveva anche l’impudenza di invitarli a pranzo!
Fu questione di un attimo. La porta della casa si aprì e una signora anziana, minuta e gentile, mi sorrise come se fossi stato uno di famiglia. E, in un certo senso lo ero. Non feci in tempo a presentarmi che, quella incominciò a farmi festa e a sciorinarmi tutto l’albero genealogico della famiglia fino alla sesta generazione: “ Ma allora tu sei il nipote di Concetta, la figlia di Felicina, che aveva sposato in seconde nozze mio zio Ciccio. Ma guarda un po’ che sorpresa!”
La parentela mi risultò alquanto complessa ma ormai i giochi erano fatti. Mi ritrovai poco dopo seduto alla tavola della cugina Giannuzzella, che poi era la nonna di Rosa, la ragazza che mi aveva salvato da una morte sicura per inedia e colpo di sole.
E’ difficile ripartire dopo aver ingurgitato una porzione doppia di scialatielli con la salsa, un paio di etti di ‘nduja con le olive piccanti, mezza forma di pecorino con le fave, due butirri e qualche bicchiere di Cirò. Di quello fatto in casa dai parenti, che prima ti rende allegro con il suo retrogusto vagamente acetato e poi ti stordisce, facendoti piombare in una sorta di beata sonnolenza.
Giannuzzella, con la sua vocina suadente e garbata, mi raccontò antiche storie di zii briganti e di cugini che avevano fatto fortuna in America.
Alla fine del pranzo, quando ormai incominciavo a dare chiari segni di stanchezza, mi raccomandò : “ Non ti dimenticare di passare da Taverna a vedere i dipinti di Mattia Preti” . Promisi che non avrei mancato in nessun modo di fermarmi anche a Taverna. Ma fra me e me, desideravo soltanto tornarmene il prima possibile a Gagliano e farmi una bella dormita, che mi liberasse dalla fatica di quella inconcludente




ricerca.
Ma la giornata non era ancora finita. Anzi, il meglio doveva ancora venire. Innanzi tutto, sbagliai strada e, invece di tornarmene da dove ero venuto, presi la direzione opposta e mi ritrovai in mezzo alle casette di legno del Villaggio Mancuso.
“Pazienza …” mi dissi, abbandonandomi al torpore della digestione, “ Vuol dire che prenderò un po’ di fresco!” E mi immersi, ormai rassegnato, in mezzo a quelle strane baite dall’aspetto svizzero, dalle quali sembrava che dovessero uscire da un momento all’altro tante piccole fate in costume tirolese. Già, la Sila sembrava proprio un altro mondo. Un mondo lontano dalle spiagge sassose dello Ionio ed estraneo ai tuguri dall’aspetto mediorientale di certi paesi della costa...
La strada era piena di curve, che abbordavo con una certa noncuranza, anche perché, a quell’ora del primo pomeriggio, a giro non c’era proprio nessuno.
Ad un tratto, qualcosa mi riscosse dalla mia placida incoscienza e il fragore del masso che si staccava dal costone sovrastante la strada mi colse di sorpresa. Non ricordo più niente di quell’istante. Nella mia memoria affiora soltanto l’immagine di un grande faggio, che mi viene incontro e che sfiora il tetto dell’auto . E la brusca sterzata per evitarlo , il precipizio sotto di me e le mille immagini che mi si affollano sfumate nella mente, più sorpresa che terrorizzata. E, infine, il buio dell’incoscienza.



Mi risvegliai, non so quando, in un letto dell’ospedale “Pugliese” di Catanzaro.
Mia cugina Maria, che, proprio quel giorno era di turno al pronto soccorso, mi augurò il buongiorno con una battutina affettuosa: “ E







bravo Pepè! Una volta tanto che ci vieni a trovare, dobbiamo venire a raccoglierti in ambulanza su una strada della Sila … Ma che diavolo ci facevi da quelle parti?”
“ Oh, niente, cercavo le radici …“ farfugliai accarezzandomi la testa fasciata, che mi faceva un gran male .
“ Ma di quali radici vai parlando? Lo sai che per poco non finivi arrostito nel precipizio? Hai avuto una bella fortuna! Vorrei solo sapere chi è stato a portarti fuori dall’auto, un istante prima che prendesse fuoco.”
“ Vuoi dire che …”
“ Voglio dire che l’auto è rimasta in bilico sopra un grosso faggio e qualcuno ne ha approfittato per tirarti fuori. Appena in tempo, prima che prendesse fuoco e precipitasse in fondo al burrone. I carabinieri dicono che ha rischiato grosso. Ancora un attimo … e ci avrebbe rimesso la pelle anche lui. Insieme a te.” E qui mia cugina fece un gesto eloquente, che mi fece venire i brividi.
Cominciavo a comprendere ma continuavo a non ricordare nulla.
Chi mi aveva salvato la vita? E, soprattutto, perché questo eroe sconosciuto era scomparso, senza nemmeno aspettare che lo ringraziassi?



Non potevo ripartire senza essere tornato su quella strada. Una frenesia sconosciuta mi spingeva di nuovo là, in mezzo ai boschi di abeti, di faggi e di pini.
Mio cugino Saverio si offrì di accompagnarmi, il giorno prima che partissi in aereo da Lametia. Ci avviammo con il suo furgone nel tardo pomeriggio. La testa non mi faceva più male ma zoppicavo ancora a causa di una contusione al ginocchio e i muscoli delle gambe erano ancora un po’ rattrappiti e doloranti. Mi era andata bene. Mia zia Anna mi aveva portato in pellegrinaggio alla Madonna di Porto per ringraziarla per lo scampato pericolo. Per poco non cadevo rovinosamente sugli scalini del santuario. Evidentemente non era ancora scoccata la mia ora!



Il furgone di Saverio si fermò proprio nel punto dove la frana mi aveva investito e, con il cuore che mi saltava in gola, scesi con fatica, barcollando fino all’orlo del precipizio.
La carcassa della mia povera auto era stata rimossa ma si vedevano chiaramente le tracce dell’incendio. Mentre fissavo nel vuoto l’erba e i tronchi bruciati, un raggio di sole, filtrato attraverso le frasche di un cerro, mi ferì la vista. Abbassai gli occhi.
Fu allora che lo sguardo mi cadde su due macchie scure, che stavano ordinatamente allineate per terra, proprio sul ciglio della strada.
Non ci volle molto a capire di chi fossero quei due vecchi calzari ricoperti di polvere. Li avevo riconosciuti subito. Erano i calzari dell’abate Gioacchino!
Sulla via del ritorno, finsi di addormentarmi, per non dover spiegare niente a Saverio. A metà strada mi addormentai davvero.
Giungemmo al paese verso sera e, mentre i monti si popolavano di ombre mi giunsero all’orecchio i versi di Achille Curcio, che mio padre mi recitava da bambino : “ Quandu cada la sira e ad una ad una/ si appiccianu li luci de Gagghianu,/guardandu lu paisa a lu Timpuna/ nu prisepiu mi para de luntanu. Sutta li casi vecchi e affumicati/ la trempa scinda versu la vaddhata/e nt’o scuru si stagghianu li strati, !para la terra tutta addormentata.”